Classe 1918, Ingmar Bergman in circa quarant’anni di carriera ha fornito un notevole apporto al cinema e alla televisione. Il padre gli impose una rigida educazione luterana basata sui concetti “peccato, confessione, punizione, perdono e grazia“, leitmotiv dei suoi futuri film.
Trovata una certa agiatezza economica in seguito al brusco allontanamento dalla famiglia, il regista svedese produsse in brevissimo tempo 12 drammi e un’opera lirica. Quando La morte di Kasper venne messo in scena, alcuni membri della prestigiosa casa di produzione Svensk Filmindustri che erano presenti decisero di assumere Bergman.
Così, da uno dei suoi scritti venne tratto Spasimo, diretto da Alf Sjöberg nel 1944 con Bergman nel ruolo di sceneggiatore. Ricevuto il plauso dalla critica, nel 1946 lo svedese esordì alla regia con Crisi, che però fu un insuccesso. Alternando anche l’attività di regista teatrale, nello stesso anno uscì Piove sul nostro amore, il primo film a mostrare diversi spunti del cinema bergmaniano.
Fu, però, a partire dagli anni Cinquanta che Ingmar Bergman cominciò a riscuotere il successo internazionale che ancora contraddistingue la visione dei suoi film. In una strabiliante filmografia interamente votataall’introspezione, abbiamo cercato di selezionare 5 opere per agevolare un (doveroso) approccio al regista svedese.
Un piccolo consiglio: vi invitiamo ad una visione in lingua originale perché i dialoghi nell’adattamento italiano sono stati fortemente edulcorati. Uno dei motivi per cui Bergman fa ancora discutere di sé è proprio l’assenza quasi totale di filtri nelle sceneggiature.
Il settimo sigillo (1957)
Su una desolata spiaggia in tempo di Crociate si trovano il cavaliere Antonius Block (Max von Sydow) e il suo scudiero Jöns (Gunnar Björnstrand). A un tratto, la Morte in persona (Bengt Ekerot) appare al cavaliere, il quale chiede un rinvio della sua fine. Ha inizio, quindi, una tesissima partita a scacchi che si protrarrà per tutto il viaggio dei due, costellato di molteplici incontri…
Il settimo sigillo, già dal titolo, rimanda all’Apocalisse, complesso testo biblico attribuito all’apostolo Giovanni. “Apocalisse” significa “rivelazione” e il numero 7, nella Bibbia, è il simbolo della completezza. Da qui i vari temi del film, a cominciare dal rapporto tra uomo e Dio investigato nell’imminenza della morte.
Il nobile cavaliere, infatti, chiede ulteriore tempo alla morte perché sta vivendo una forte crisi spirituale e vuole avere la certezza di Dio. Lo scudiero, invece, è fortemente materialista e non crede in una vita ultraterrena. Teniamo presente, inoltre, il contesto, che offre il tema della paura. Infatti, imperversa la peste e i monaci inducono i più sprovveduti a temere la fine con processioni ammonitrici e raffigurazioni di supplizi.
La Morte è, invece, un’asettica messaggera del Fato e colpisce anche persone apparentemente non in pericolo di vita. Essa, inoltre, afferma chiaramente di non aver necessità di sapere la verità su cosa avvenga una volta sopraggiunta la fine. Il dubbio diventa un’insanabile condizione esistenziale cui adattarsi.
Oltre alle superbe interpretazioni del cast, Ingmar Bergman realizza una messa in scena magistrale. Una delle sue cifre stilistiche è la distribuzione degli attori nell’inquadratura, che quando dialogano non sono di fronte ma spostati in diagonale.
Inoltre, con il direttore della fotografia Gunnar Fischer, il regista sfrutta gli spazi per inquadrature simboliche (come il tronco che divide i personaggi) e applica un’illuminazione meticolosa. In tal senso, è da ricordare la scena finale, girata al crepuscolo con illuminazione naturale.
Il posto delle fragole (1957)
L’anziano medico Isak Borg (Victor Sjöström) deve recarsi in viaggio a Lund per ritirare un prestigioso premio accademico. La nuora (Ingrid Thulin) decide di condividere con lui il viaggio in automobile per fargli alcune confessioni personali. Durante lo spostamento, anche a causa di un terribile incubo avuto la notte prima di partire, Isak si confronterà con i fantasmi del proprio passato…
Il posto delle fragole porta avanti la profonda riflessione di Ingmar Bergman sulla vita e la morte considerando ora l’anzianità. L’incubo sperimentato da Isak vede infatti molti simboli di morte, come un uomo che si dematerializza e una bara contenente lui stesso. Pur spaventato, l’uomo decide comunque di affrontare il viaggio, facendo però tappa in numerosi luoghi della sua gioventù.
Il medico ha quindi modo di rivivere gioie, rimpianti, rimorsi nella sua età crepuscolare, sapendo che ormai nulla può ripetersi o cambiare. A rendere ancora più profonda la sua introspezione sono due elementi: il gruppo di ragazzi che incontra e i continui sogni.
Il gruppo vede una ragazza (Bibi Andersson) contesa da due ragazzi (Folke Sundquist; Björn Bjelfvenstam). Uno di loro è credente, l’altro invece no. Non poteva, infatti, mancare la riflessione sull’esistenza di Dio. I sogni, invece, riguardano il passato ma anche il presente, in quanto uno distorce un’ipotetica cerimonia della sua premiazione. Essi, insieme con la nuora, rivelano tutta la freddezza e insensibilità di Isak, già abbastanza evidente nella scena iniziale.
Tutto è legato assieme dal tema del tempo, fugace e inesorabile. La mancanza di lancette nell’orologio del primo sogno e in quello della madre del medico agevola il passaggio tra finzione e realtà. In mezzo a un cast stellare, in primis il protagonista, Victor Sjöström, riesce a trasmettere alla perfezione tutti i temi. L’attore, in passato, fu un maestro del cinema muto (ricordiamo Il carretto fantasma del 1921), nonché di Bergman stesso.
Stilisticamente, Ingmar Bergman costruisce la scena come di consueto, affiancando gli attori di 3/4 e creando inquadrature suggestive (come nell’immagine). Ritorna la collaborazione con Gunnar Fischer, con cui riprende lo studio degli spazi, soprattutto negli esterni. Il bianco e nero dà un tocco estemporaneo alle vicende, spesso annerendo gli alberi ottenendo un effetto lugubre.