Tutti i film di Paolo Sorrentino dal “peggiore” al migliore [LISTA]
Il 31 Maggio 2020 Paolo Sorrentino festeggia 50 anni. Per celebrare il compleanno del regista più controverso del panorama cinematografico italiano, abbiamo deciso di ripercorrere la sua eccezionale carriera. Ecco la classifica dei suoi lavori, dall'esordio con L'uomo in più alla serie The New Pope.
Loro, film in 2 parti dedicati al mistero Silvio Berlusconi, è forse l’opera meno convincente nella filmografia di Paolo Sorrentino. Nella prima parte il protagonista diserta, mentre il film si dedica soprattutto all’immaginaria figura di Sergio Morra, interpretato da Riccardo Scamarcio, che chiaramente s’ispira al vero Giampaolo Tarantini, spregiudicato arrampicatore di provincia.
Obiettivo di Sorrentino era realizzare un affresco complesso, che lasciasse ampio margine a quella variopinta corte di ragazze, galoppini e saltimbanchi, sempre pronti a circondare “il più grande venditore d’Italia“, l’uomo che ha fatto di sé “un paradiso in carne e ossa“.
Il regista sceglie ancora di sospendere il giudizio, e non cerca un film politico, piuttosto indaga vizi e debolezze di un uomo terrorizzato dalla vecchiaia. Sarà la divisione in 2 parti, o il protagonista che tarda ad arrivare, ma l’intreccio risulta irrimediabilmente dispersivo. E soprattutto, chi aspettava una versione aggiornata de Il divo, è rimasto spiazzato dall’indulgenza del film, che non sembra minimamente analizzare l’impatto della politica di Berlusconi sul paese reale.
Di Loro resta l’immancabile, folgorante performance di un Toni Servillo in stato di grazia. E chi desiderava rivedere il Sorrentino più sferzante, ardito e irriverente, troverà pane per i suoi denti con The Young Pope e The New Pope.
7. Youth (2019)
A cura di Luca Varriale
Io, invece, rispondevo: “L’odore delle case dei vecchi”. La domanda era: “Che cosa ti piace di più veramente nella vita?” Ero destinato alla sensibilità. Così parlava Jep Gambardella ne La Grande Bellezza, probabilmente rispecchiando un aspetto intimo del regista napoletano. Sorrentino è affascinato dalla vecchiaia, ne scruta le proprietà, gli aspetti, le sfumature.
L’anziana coppia ne Le conseguenze dell’amore, il monologo di Tony Pisapia ne L’Uomo in più, l’ultimo arco esistenziale di Giulio Andreotti ne Il Divo, l’anziana suora nel già citato film premio Oscar. Leitmotiv che percorrono l’intera filmografia del grande autore. Riflessioni sul tempo e il decadimento, sulle occasioni che non torneranno più, sugli attimi lasciati ad aspettare. L’ansia di aver completato il percorso, la paura di aver dato tutto, ossessioni che premono nella mente, come nel caso di Cheyenne in This must be the place. Tutte queste disseminate sensazioni trovano compimento totale in Youth, ove assistiamo a diversi approcci alla vecchiaia da parte di uomini ricchi, colti e di successo.
Troviamo l’arresa, la rinnovata gioia, il disincanto, la stanchezza fisica e spirituale, il cinismo. Un caleidoscopio di sentimenti e frustrazioni legati all’ultimo pezzetto di percorso che aspetta tutti noi. Contrapposta alla vecchiaia troviamo la giovinezza di alcuni personaggi, che, contro tutte le aspettative, si rivela una versione anticipata di questa. I tormenti di Jimmy Tree, la difficoltà di comprendere il padre da parte di Lena, l’autodistruzione compiuta nel pieno della vita da parte del personaggio maradoniano, ci restituiscono tutte le difficoltà dell’esistenza, che sono presenti in ogni momento. La vecchiaia non è altro che prendere atto di queste mancanze e sofferenze, e l’unica differenza sostanziale tra i tormenti della giovinezza e quelli della canizie non è altro che la bellezza di un corpo sano, forte e bello negli anni verdi.
E mentre si susseguono le vite giovani e anziane in questo resort di lusso, Sorrentino, con le sue panoramiche e campi lunghi dei magnifici luoghi della Svizzera, ci ricorda che, nonostante le nostre vite, il mondo va avanti con la sua bellezza ciclica fatta di morte e rinascita.
Un film da vedere ora e poi quando si sarà nell’ultima parte dell’esistenza, pena una comprensione con una sola parte del cuore.
6. This must be the place (2011)
This must be the place è il primo film americano di Paolo Sorrentino. Scritto espressamente per Sean Penn, celebra l’immaginario musicale del regista, la sua passione per la New Wave dei primi anni ’80. Il look di Cheyenne, il protagonista, è chiaramente ispirato a Robert Smith, leader di The Cure, mentre il titolo rimanda a un celebre brano dei Talking Heads. Lo stesso David Byrne, leader della band, interpreta nel film un ruolo fondamentale, e viene descritto dallo stesso Cheyenne come un incredibile artista e sperimentatore.
Protagonista di This must be the place è una rockstar in piena decadenza. Dopo il suicidio di 2 giovani fan, Cheyenne è preda di depressione e sensi di colpa, guarda al suo passato con grande amarezza, e vive in una sorta di esilio volontario con la moglie Jane (Frances Mc Dormand). Nel bel mezzo di questa profonda crisi esistenziali Cheyenne riceve la notizia che il padre sta morendo. Per questo, decide di tornare negli Stati Uniti, ma non riuscirà a salutare un’ultima volta quell’uomo, con cui non parla da oltre 30 anni. In compenso, deciderà di esaudire un suo antico desiderio. Ovvero, ritrovare il gerarca nazista che l’aveva umiliato in campo di concentramento, che vive ora in USA sotto falso nome. Inizia così un road movie attraverso l’America profonda, da New York al New Mexico, che è naturalmente un percorso di rinascita.
This must be the place è un film dalla struttura eterogenea, che ha forse l’ingenuità e le incongruenze di una trama costruita in funzione delle immagini. Il regista sembra evidentemente realizzare un sogno, e forse pecca di eccessiva auto-indulgenza, ma regala una serie di sequenze dalla bellezza ipnotica, illuminate dalla colonna sonora originale di David Byrne.
5. L’amico di famiglia (2006)
L’amico di famiglia è il terzo lungometraggio di Paolo Sorrentino, nonché il film della consacrazione. Il regista definisce quegli elementi che rappresentano il cardine del suo cinema. La predilezione per il grottesco, l’attenzione quasi morbosa per i corpi, il contrasto stridente tra la bellezza della gioventù e la mostruosità di un protagonista squallido e deforme. E su tutto: la presenza ricorrente di sequenze oniriche, vere e proprie incursioni in una dimensione anti-narrativa e fortemente allegorica, che rompono la naturale progressione della storia.
Il protagonista de L’amico di famiglia è un essere decisamente deprecabile: Geremia Dè Geremei (Giacomo Rizzo). Se formalmente è un sarto, Geremia in realtà è un usuraio cinico e senza scrupoli. Nella ridente provincia di Sabaudia, offre i suoi servigi a famiglie piccolo-borghesi, con l’aiuto dell’amico Gino (Fabrizio Bentivoglio).
Sorrentino descrive prima un essere abietto, ripugnante, morbosamente legato alla madre inferma, ossessionato dal sesso e dalle ragazzine. Poi, dopo l’incontro con Rosalba (Laura Chiatti), costringe lo spettatore a rivedere ogni forma di giudizio. La ragazza infatti è ben più crudele, fredda e manipolatrice dello strozzino. E incredibilmente, arriveremo a provare una sorta di pietà per quel vecchio mostro, che ha osato credere che la felicità è possibile.