La collezione di canzoni di Daddy’s Home affonda infatti le dita in una palude nostalgica, fatta di lente ballad languide che sposano qui il glam, lì il country, con suoni raffinati ma incespicanti. La frase che va usata è questa: l’album non decolla. Una tracklist ostica accompagna l’ascolto fino alla fine, tra alti e bassi, lasciando la netta impressione di un tentativo riuscito a metà .
Beninteso, l’accuratezza nella ricostruzione degli arrangiamenti d’epoca è tutta da apprezzare, così come la “fuga” da qualunque atmosfera digitale moderna. E poi c’è il sitar, un po’ il particolare tormentone del disco, che ricorre a più riprese per chissà quale motivo. Ma nonostante il largo impiego di suoni interessanti, l’idea che si trae dell’insieme è quella di un locale svuotato, a fine serata.
St. Vincent non è mai stata troppo tipa da ballad. Chi la conosce sa che se l’è sempre cavata molto meglio con il suo hyper-pop iper-ironico, con schitarrate alternative su basi electro e testi satirici e importanti. Qui la ritroviamo da tutt’altra parte. Abbiamo quello che si dice un disco riflessivo; qualucuno potrebbe dire maturo, ma sembra piuttosto una specie di pausa contemplativa.
Le canzoni più riuscite sono sicuramente Pay Your Way in Pain, The Melting of the Sun e …At the Holiday Party. Bello il crescendo di Live in the Dream, mentre cattura particolarmente la felice sorpresa di Down, traccia funky molto vivace che dà un’idea di ciò che avrebbe potuto essere l’album se indirizzato diversamente. Invece, abbiamo l’equivalente musicale di un bicchiere da drink vuoto.
In conclusione Daddy’s Home non resterà probabilmente tra i classici album di St. Vincent. Al contrario, sarà forse un lavoro di culto il cui status, come spesso accade, crescerà con il passare degli anni. Meno di quanto ci si aspettava da lei, sicuramente, ma certo un disco da risentire e riscoprire ad ogni ascolto. Con nostalgia, rimpianto e malinconia, magari.