“No woman, no cry” è il classicone della musica reggae per eccellenza, di quelli che ognuno di noi avra ascoltato almeno una volta nella vita.
Inizialmente inserito in Natty Dread del 1974, trova la sua dovuta gloria solo nella versione live dell’anno dopo, più morbida rispetto all’originale. Il brano di Bob Marley resta uno dei più apprezzati di tutti i tempi: non a caso, occupa il 37esimo posto nella “Lista delle 500 canzoni di tutti i tempi” di Rolling Stone.
Negli anni, le interpretazioni sul reale significato del testo si sono sprecate; qualcuno è riuscito anche qui a condire di polemica il titolo, attribuendo a Marley un certo gender bias. Come? “No woman, no cry” nelle mente dei più fantasiosi è suonata come una sorta di “No martini, no party“: da qui il malinteso circa il significato.
E’ assurdo pensare che uno come Bob Marley abbia potuto fraseggiare qualcosa che in italiano avrebbe reso “senza donne non si piange”.
Possiamo affermare, senza timore di smentita, che non potesse farsi portavoce di un messaggio del genere, scadendo così nel solco della retorica della femme fatale.
Il perché dell’equivoco nasce fondamentalmente dal patois, il dialetto giamaicano cantato da Marley e da centinaia di altri artisti come lui. Se è vero che questo deriva dall’inglese, è anche vero che non si può avere la pretesa che possa rispettarne le regole grammaticali. Per cui, probabilmente anche sotto la guida di una certa rivendicazione identitaria, il verso che sarebbe dovuto essere “No woman, DON’T cry”, è rimasto “No woman, nuh cry”, l’equivalente giamaicano di “don’t”, poi modificato in “no”.
Di questi tempi siamo piuttosto abituati alle contese no-sense. E ci fa sorridere pensare che possa esserci qualcuno che illuminato dalla luce del politcally correct, passi il proprio tempo alla ricerca di questo o quella discriminazione.
Ma al di là delle solite polemiche sterili messe in atto dai soliti diabolici, “No Woman No Cry” è un canto agrodolce.
È una canzone nostalgica, e speranzosa nello stesso tempo. È il brano affettuoso con cui Bob Marley consola la sua musa, invitandola a non piangere, a non perdere le speranze, nonostante la mancanza di tante cose e la perdita degli affetti più cari.
Assume quasi i connotati di un inno alle donne e alla loro forza. Alla loro capacità di non abbattersi e di continuare a lottare, nonostante tutto.
Nel testo Marley si lascia andare anche ai ricordi della sua giovinezza, trascorsi a Trenchtown, il ghetto di Kingston. E non è un caso che i diritti della canzone non siano i suoi, ma del suo amico Vincent Ford, la cui storia è tanto drammatica quanto quella di Bob Marley stesso.
Vincent Ford era famoso per aver salvato un giovane dall’annagamento, a 14 anni. E per aver salvato Marley dalla fame, durante la sua adolescenza.
Il government yard in Trenchtown citato in No Woman, No Cry, era il numero 3 di First Street, dove il signor Ford gestiva una semplice cucina, nota come Casbah, in una delle numerose case popolari in cemento costruite intorno a cortili pubblici. Più volte aveva aiutato Bob, la cui vita era segnata dagli stenti, offrendogli un pasto caldo e un tetto sopra la testa: a Marley come a tutto il ghetto. Quando nel ’74 l’attività era sul punto di fallire e i diritti di “No woman, no cry” ne hanno assicurato la sopravvivenza fino ai nostri giorni.
Chiaramente, la questione dei diritti e delle royalties riuscì fuori nel momento della morte di Bob, portando ad una disputa tra casa discografica ed eredi: secondo la prima, Marley avrebbe registrato le proprie composizione sotto pseudonimo per non onorare il contratto stipulato. La cosa però risulta inverosimile, visto che non solo Ford appare come autori di altri suoi testi, ma anche perché sono tanti i brani di Marley i cui diritti fanno capo ad amici in difficoltà.
E anche noi vogliamo credere nella versione più romantica della favola.
No Woman No Cry rappresenta il vissuto di un’intera nazione. In fondo, si dice che il reggae sia essenzialmente una “forma d’arte collaborativa”. E Bob Marley non era altro che un poeta del popolo: del suo popolo. Per quel che ne sappiamo, potrebbe anche essere anche frutto di Vincent Ford.