Artista eclettico e psichedelico, Salvador Dalì è noto soprattutto per i suoi lavori in campo pittorico e scultoreo. Tuttavia, nel corso della sua vita, il pittore catalano si cimentò in diversi campi artistici, trovando nel cinema una libertà espressiva e un potenziale tutti nuovi in cui riversare la sua poetica visionaria.
Vi presentiamo in ordine cronologico le sue 5 collaborazioni più celebri, chiaramente avvenute con alcuni tra i registi più sperimentali e rivoluzionari del suo tempo.
Un chien andalou (1929), Luis Buñuel
Il primo progetto di Salvador Dalì nel cinema muto lo vede co-autore insieme al regista surrealistaLuis BuñueldiUn Chien Andalou. Si tratta di un cortometraggio di 17 minuti, capolavoro del cinema muto indipendente di quegli anni.
Dalì aveva conosciuto Luis Buñuel da giovanissimo, precisamente alla Residencia de Estudiantes di Madrid. Tra i due era nata un’amicizia fraterna, che ha poi portato a diverse collaborazioni in ambito cinematografico.
Un Chien andalou ha ben poco di lineare e moltissimo di onirico, surreale e assurdo, e anzi gioca con questi elementi con il chiaro obiettivo di sovvertire le regole della narrazione e logica di pensiero del tempo, in piena adesione al Primo Manifesto Surrealista di André Breton (1924).
La prima e celeberrima scena vede lo stesso Buñuel affinare un rasoio guardando la luna piena e poco dopo squartare l’occhio di una donna. L’occhio utilizzato nel film, come si evince nell’atto clou, appartiene in realtà ad un animale, un bue o un vitello.
Ad ogni modo, questa scena raccapricciante ed il fatto che sia il regista stesso a perpetrarla sottolineano l’intenzione degli autori, sin dal primo momento, di rompere l’approccio convenzionale dello spettatore nella visione e decodifica delle scene successive.
La pellicola è infatti una concatenazione di 5 scened’impatto,slegate e senza apparente connessione l’una con l’altra, sebbene vi siano degli elementi ricorrenti e ad alto valore simbolico, che permettono svariate interpretazioni sul significato della trama.
Le interpretazioni
Da diversi studi successivi, specialmente di carattere psico-analitico, emergono comunque una serie di tematiche prevalenti, tra cui l’amore erotico (rappresentato in modo oscenamente esplicito per i tempi), l’interiorità turbata, scomposta con un approccio psicanalitico, il passato e i ricordi d’infanzia, e, non ultimo, il fardello dell’aspettativa socialee religiosa che impedisce la libera espressione della passione amorosa.
Particolarmente emblematica in questo senso è la grottesca scena in cui il protagonista, nell’atto di lanciarsi verso la donna che desidera, è costretto a trascinare con delle corde due tavole simili ai Dieci Comandamenti, due pianoforti con due carcasse di asino e due preti, di cui uno interpretato fugacemente da Dalì stesso.
Il cortometraggio venne proiettato nel 1929 utilizzando come colonna sonora le musiche di Richard Wagner (Liebestod, da Tristano e Isotta) e due tango argentini, che nel ’60 vennero ufficialmente integrati al film sotto la direzione di Buñuel steso.
L’age d’or (1930), Luis Buñuel
La seconda collaborazione di Salvador Dalì con Bunuel è forse ancora più clamorosa della prima, e si chiama L’age d’Or.
Si tratta questa volta di un lungometraggio di circa un’ora, che continua ma per molti versi rompe con la prima espressione più pura di Un Chien Andalou. Il film porta al cinema stavolta il contenuto del Secondo Manifesto Surrealista, firmato qualche anno prima da Breton e Max Ernst, di natura nettamente più sociale.
Il film venne proiettato per soli sei giorni allo Studio 28 di Parigi prima di essere censurato e messo al bando da gruppi di estrema destra e antisemiti, proprio per la violenta e ora piuttosto esplicita condanna delle istituzioni dell’età d’oro (gli anni ’20, per l’appunto). A livello tematico si rende infatti chiara la critica alla forza militare, alla Chiesa e allo Stato, nelle loro varie rappresentazioni tradizionali (poliziotti, sacerdoti e ministri).
Nonostante la volontà più divulgativa, restano alcuni elementi di simbolismo tipici del lavoro di Dalì e Bunuel, come gli insetti e le statue e le parti del corpo mutilate. Altri aspetti di continuità si riscontrano nel linguaggio utilizzato, che afferisce profondamente al mondo del subconscio e della psicoanalisi.
Ritorno ad una narrazione più classica
Rispetto a Un chien andalou, in questa film si può rintracciare un fil rouge narrativo. La storia vede due amanti, Modot e la Lys, cercarsi senza mai riuscire a consumare il proprio amore, ancora una volta di carattere fortemente passionale. E ancora una volta sono proprio le istituzioni, nonché i dogmi morali a cui entrambi sono sottoposti, ad ostacolarne il lieto fine.
I due protagonisti agiscono in maniera non sempre intellegibile, apparendo spesso frustrati e disperati, proprio perché costretti a reprimere le loro pulsioni individuali ed erotiche a causa delle imposizioni sociali e religiose.
Bunuel e Dalì tornano quindi a colpire lo spettatore con un film sicuramente surrealista, ma meno auto-referenziale rispetto al movimento. L’aspra critica alle istituzioni si estende anche alla borghesia e alla nobiltà lasciando trasparire l’intento rivoluzionario anche a livello sociale e politico.
Bandito per più di cinquant’anni, il film è tornato alla luce grazie al visconte Charles de Noailles, che ne fu committente in origine, e che lo conservò lontano da occhi indiscreti in attesa di riconsegnarlo al pubblico.
Io ti Salverò (1945), Alfred Hitchcock
Dopo i lavori fortemente sperimentali con Buñuelpassano alcuni anni prima di vedere nuovamente l’estro di Salvador Dalì sul grande schermo.
Nel 1945 esce nelle sale Spellbound (Io ti salverò il titolo italiano), diretto dal Maestro del brivido Alfred Hitchcock. Il film, con Ingrid Bergman e Gregory Peck, ha come tema e strumento principale la psicanalisi, raccontando la storia di un uomo (Peck) che ha dimenticato la propria identità e della dottoressa (Bergman) che si innamora di lui e tenterà di scoprire la verità.
Il film è uno dei più amati all’interno della vasta filmografia di Hitchcock, grazie anche alla sceneggiatura del grande Ben Hecht e, ovviamente, la scena onirica realizzata con Dalì.
Dalì collabora qui in una produzione ben più grande rispetto a quelle precedenti. Il suo contributo si ferma però ad una particolare scena, ovvero quella in cui il personaggio di Gregory Peck racconta il sogno che ha fatto la notte precedente.
La sequenza si apre con occhi fluttuanti che vengono poi tagliati (per tornare a Un chien andalou), per proseguire in pieno stile surrealista con quelli che sono veri e propri quadri dell’artista che prendono vita sullo schermo.
Originariamente la sequenza sarebbe dovuta essere molto più lunga: quasi venti minuti secondo quanto affermato dalla Bergman. Nel film ne troviamo una versione fortemente ridimensionata, probabilmente dopo l’intervento del leggendario produttore David O. Selznick.
Né Dalì né Hitchcock furono particolarmente soddisfatti del risultato finale, sicuramente anche per i tagli subiti in fase di montaggio. La collaborazione resta però una delle più interessanti, fra quelli che sono stati due geni indiscussi delle rispettive arti del secolo scorso.
Impressiones de Mongolia Superior (José Montes-Baquer, Salvador Dalì), 1976
Molti anni dopo l’esperienza (per lui) non proprio positiva di Spellbound, Dalì si dedica ad un progetto molto personale.
Nel 1976 esce un mockumentary dal titolo Impressiones de Mongolia Superior. Il film è diretto da José Montes-Baquer ma è Dalì il suo artefice principale, sia scenicamente che spiritualmente.
Si tratta di un viaggio immaginario verso l’alta Mongolia alla ricerca di un enorme e particolare fungo allucinogeno. Viaggio che si rivela più metaforico che reale, ed avverrà attraverso immagini dallo spazio, quadri, il volto di Hitler e Dalì stesso in tutta la sua eccentricità. In questo film c’è tutto Dalì, dalla sua persona, al rapporto con la moglie Gala, il suo modo di intendere l’arte come provocazione e sperimentazione.
Impressiones del Mongolia Superior è forse il lavoro più personale e, in questo senso, riuscito dell’artista nel campo cinematografico. Un trip di 50 minuti dove, come un artista-vate, ci conduce in un finto viaggio attraverso le sue immagini e la sua voce.
Il film è, anche, un omaggio a Raymond Roussel, fine penna francese e, fra le altre cose, padre spirituale della Patafisica. Gli artisti surrealisti devono molto a Roussel, in un certo senso loro precursore per molti aspetti.
Destino (2003), Dominique Monfery
Nel 1945 Walt Disney aveva notato Dalì in ambito cinematografico proprio dopo la visione di Io ti Salverò e aveva avuto la geniale intuizione di collaborarci in ambito animazione. I due, insieme all’équipe di animazione Disney, cominciarono perciò a lavorare al corto Destino. Il film prende il nome dal brano dell’autore messicano Armando Dominguez, unico elemento sonoro di accompagnamento.
Per Salvador Dalì, che aveva già scoperto il potenziale figurativo dell’arte cinematografica, l’elemento animazione era forse quasi più intrigante. Dava infatti la possibilità di mostrare la trasformazione degli elementi e la metamorfosi umana, temi cardine della sua poetica, al massimo della loro espressione visiva.
Il progetto fu tuttavia interrotto a causa dei postumi economici della Seconda Guerra mondiale, da cui neanche l’impero Disney fu escluso: uno degli animatori, incoraggiato da Disney stesso, fece giusto in tempo ad eseguire un test di animazione e lasciare qualche psichedelico storyboard, nella speranza che venisse ripreso in futuro.
Il nipote di Walt riprende il lavoro di Salvador Dalì
E così fu. Nel 1999 nipote di Walt, Roy Edward Disney, reduce dal successo di Fantasia 2000, riprese in mano le poche e surreali linee guida per completare il lavoro iniziato da Dalì e dal defunto nonno.
Ne viene fuori un piccolo capolavoro surrealista, disponibile su Youtube.
Il corto, dalle atmosfere decisamente oniriche (da Dalì, d’altronde, non ci si poteva aspettare nulla di meno) vede una ballerina esteticamente simile ad una principessa Disney danzare in un deserto spoglio e popolato solo di elementi fantastici e indefiniti, con cui mano mano interagisce e addirittura si fonde (una piramide, delle sculture multi-forma, una campana), fino all’incontro con un altro essere umano, inizialmente statua ma che, come tutto nel cortometraggio, cambia la propria forma diventando un uomo.
I due amanti cercano di raggiungersi, ma la deformità e instabilità del contesto fisico e degli elementi tra di loro glielo impediscono. Quasi come se il tempo stesso, e non solo lo spazio, sia piegato, caduceo, rendendo impossibile l’incontro dei due giovani.
L’impronta di Dalì è percepibile ovunque, dalla sceneggiatura al setting surrealista e fortemente simbolico, ispirato anche ad opere di ben altri tempi, come “La Menzogna” parte del Ciclo delle Quattro Allegorie di Giovanni Bellini (Giambellino).