Accompagnato dall’hashtag #SoloAlCinema, arriva nelle nostre sale questo 6 Maggio l’attesissimo, nuovo film di Woody Allen, Rifkin’s Festival. Un’amara parabola sulla fine di un amore, ma anche un’ardente, appassionata lettera d’amore ai grandi maestri dell’arte cinematografica.
Ambientato nei giorni del San Sebastian Film Festival, il film è stato presentato proprio nel corso dell’ultima edizione, il 18 settembre 2020. La seconda chiusura dei Cinema, causata dalla nuova ondata di Covid-19, ha ritardato l’uscita di svariati mesi.
Ma ora, il nuovo non-capolavoro firmato Woody Allen conquista finalmente il grande schermo. E come accade abitualmente negli ultimi anni, Rifkin’s Festival viene anticipato da una lunga scia di polemiche, riproponendo puntualmente due annose questioni.
La prima, esclusi Un giorno di pioggia a New York (qui la nostra recensione) e pochi altri titoli, è la classica accusa destinata ai film di Woody Allen dagli anni ’90 a oggi. Ovvero, aver perso originalità e smalto, mostrandosi come l’ennesima reinterpretazione di storie, personaggi conosciuti.
La seconda, tristemente, riguarda invece l’uomo Woody Allen, la condanna senza appello dell’opinione pubblica americana. Il movimento #MeToo ha infatti riportato in auge le infamanti accuse mosse al regista dall’ex moglie Mia Farrow e sua figlia Dylan Farrow.
Bandito dagli schermi statunitensi prima ancora della sua anteprima, il nuovo film di Allen, almeno in Italia, resterà invece alla Storia come il film del ritorno al Cinema, il primo grande titolo esposto in cartellone dalle sale e dagli esercenti, che dopo tanti mesi oscuri riaprono finalmente i battenti.
Sarà un caso, o forse un felice scherzo del destino, ma non poteva esistere opera più indicata per celebrare questo passaggio storico.
E se lo stesso Allen si diverte a scherzare sul fatto che il film non sia un capolavoro, insieme al Direttore della Fotografia Vittorio Storaro ha scelto invece di regalare ai cinefili di tutto il mondo una manciata di sequenze memorabili.
Il protagonista Wallace Shawn, alias Mort Rifkin, alter ego dello stesso Allen, per tutto il film sarà perseguitato da incubi a tema cinematografico. E mentre assiste all’inesorabile disfacimento del suo matrimonio, rivede in sogno i grandi film della sua vita, da Fellini a Truffaut, da Bergman a Buñuel.
Rifkin’s Festival: la Trama
Mort Rifkin (Wallace Shawn) è un ex professore universitario e fanatico cinefilo, sposato da molti anni con Sue (Gina Gershon), affermata addetta stampa del settore. Sospettando che la moglie intrattenga una relazione col giovane regista francese Philippe (Louis Garrel), sceglie di seguirla a San Sebastian.
Sue deve presentare in anteprima mondiale al San Sebastian Film Festival il nuovo lavoro di Philippe, un pretenzioso film di guerra. Eppure, le banalità pacifiste del sofisticato giovane autore sembrano letteralmente conquistare il mondo intero.
Nel frattempo, i suoi film preferiti si ripresentano in sogno, solo che al posto di Mastroianni o di Jeanne Moreau ci sono proprio i fantasmi del suo passato, e soprattutto Sue e Philippe, la moglie fedifraga e quel regista che non teme la banalità , ma ostenta l’auto-stima di un novello Jean-Luc Godard.
Insieme agli incubi Mort Rifkin sperimenta anche la morsa dell’ansia, e da buon ipocondriaco, quando avverte dei dolori al petto, prenota subito una visita cardiaca. La dottoressa Jo Rojas (Elena Anaya) diventerà la scusa per un nuovo, subitaneo innamoramento, o forse per ritrovare fiducia nel futuro.
Rifkin’s Festival: la Recensione
Con irresistibile ironia, Woody Allen presenta tra i suoi nuovi non-capolavori un film che indaga la natura stessa del capolavoro, o meglio la sua impossibilità nel contesto del Cinema contemporaneo.
Certo, Allen sconta la colpa di un fanatico radicale, letteralmente ossessionato di Cinema, confermandosi anche oltre gli 80 anni come un regista che non sa vivere lontano dal set, e perciò continua a girare compulsivamente quasi un film l’anno.
Ineluttabilmente questo comporta che nella sua filmografia esistano titoli maggiori e minori, e Rifkin’s Festival si sistema orgogliosamente nella schiera dell’opere minori, nella sezione commedia agrodolce, deliberatamente costruita come nuova variazione su temi, idee, atmosfere già esplorate.
Lo scorrere inesorabile del tempo, un matrimonio che diventa gelido, il tepore dell’abitudine e il terrore di affrontare la verità e il cambiamento, ma anche il senso d’inadeguatezza, la malinconia data dall’amore per l’arte, la letteratura e il cinema, e la consapevolezza di non essere all’altezza dei propri stessi idoli.
Tutti questi temi verranno nuovamente illustrati da Allen attraverso i personaggi di Mort Rifkin e Philippe. E prima ancora di indagare la struttura meta-cinematografica del film, è importante sottolineare il coraggio, l’assoluta auto-ironia di questi due interpreti.
Il fascino discreto del capolavoro mancato.
Da un lato troviamo il caratterista Wallace Shawn, un attore che ha attraversato la Storia del cinema e della televisione americani, da Manhattan dello stesso Woody Allen alle serie Sex and city. Per tutta la sua carriera sembra aver interpretato sempre lo stesso personaggio.
Ma ora l’ometto basso, grasso e senza capelli, cresciuto secondo gli stereotipi della comunità ebraica a New York, si trova improvvisamente proiettato nella dimensione del protagonista assoluto.
Dall’altro c’è Louis Garrel, che in Rifkin’s Festival si chiama Philippe come suo padre, che è a sua volta un celebre regista francese. Attore, regista, sceneggiatore e star dai molti scandali, Garrel nel film si lega sentimentalmente a una donna sposata e decisamente più matura.
Impossibile non notare il sarcasmo della sua interpretazione, già che lo stesso Garrel è stato bersagliato per anni dalla stampa scandalistica, prima per la relazione con Valeria Bruni Tedeschi, quasi vent’anni più grande di lui, poi per averla lasciata, sposando Laetitia Casta.
Il retrogusto amaro, anzi amarissimo rispetto al personaggio di Louis Garrell non si esaurisce comunque nella sfera sentimentale, così come il film in generale non è incentrato semplicemente sulla fine di un amore, ma su una vera e propria crisi esistenziale.
Mort Rifkin trova nell’antagonista Philippe la nemesi della sua intera esistenza. Se l’uomo si è tormentato tutta la vita sulle “grandi domande dell’esistenza”, se per anni ha cercato inutilmente l’ispirazione per il scrivere il suo capolavoro, il giovane autore è l’emblema della superficialità delle nuove generazioni.
Il narcisismo patologico, perfino grottesco del regista rampante racconta anche l’atteggiamento sprezzante, superficiale e volitivo di chi non si fa tutte queste domande. Il ragazzo di successo, il vincente non si preoccupa di conoscere, meno che mai di eguagliare i maestri del passato.
Ipercritico, ma forse più banalmente ignorante, Philippe sembra riflettere l’atteggiamento delle nuove generazioni di cinefili sui social, disinteressati alla Storia, al passato, alla saggistica e la letteratura critica, ma sempre pronti ad esprimere il proprio giudizio, come si trattasse sempre di verità incontestabili e assolute.
Destinato irrimediabilmente alla sconfitta, il vecchio professore di Cinema inizia a sognare i grandi capolavori che hanno riempito di amore la sua esistenza. E così Woody Allen e Vittorio Storaro trovano la scusa per ripercorrere la loro personale Storia del Cinema.
Quarto potere di Orson Welles, 8 e 1/2 di Federico Fellini, Jules et Jim di Francois Truffaut, Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, Ingmar Bergman con Persona e Il settimo sigillo, ma anche Il fascino discreto della borghesia di Luis Buñuel.
Questa la piccola galleria riproposta da Woody Allen e Vittorio Storaro, capace certo di riscrivere queste leggendarie sequenze in chiave assolutamente ironica, perfino parodistica. Ma al contempo, di celebrare “l’arte del sogno” ricostruendo con attenzione maniacale fotografia, inquadrature, stile dei maestri.
Rifkin’s Festival non sarà forse uno di quei masterpiece che cambiano il corso della Storia. Eppure, nel buio della sala, questo piccolo film a suo modo perfetto saprà riaccendere il silver screen con quella magia che appartiene solo all’artificio cinematografico, ovvero al “sogno in stato di veglia”.
Quella magia che tanto ci mancava e che fatalmente torna a rivelarsi in un film carico di malinconia, eppure capace di raccontare come la passione per l’arte cinematografica possa riempire di senso e gioia una vita intera.
Per questo, non possiamo che consigliarvi di correre a vedere questo film in sala, sostenendo possibilmente i piccoli esercizi cinematografici, i circuiti indipendenti, quelli che più hanno sofferto gli effetti della pandemia.
E se tornerete a casa con una irrimediabile nostalgia del passato, qui trovate anche il nostro umile compendio dei Migliori film di Woody Allen, maestro ineffabile delle opere minori.