Si è parlato molto di Nomadland come di un punto di arrivo nel processo di apertura degli Oscar a un “altro” cinema, coraggioso, sperimentale. Aggettivi in realtà pretestuosi se applicati ai recenti vincitori del premio americano, sempre mimeticamente tarati su gusti ed esigenze rappresentative dei piani alti hollywoodiani. Ma rispetto a quanto solo pochi anni fa era il pane quotidiano dell’Academy (dal Discorso del Re, a 12 Anni Schiavo, per non dire di Spotlight), è chiaro come il gusto sia cambiato.
Quello che con Moonlight fu uno shock, con Zhao è oggi la norma. Gli USA sono in cerca di una nuova immagine di sé (questo è ciò che fanno gli Oscar, da sempre: pubbliche relazioni per l’establishment americano). La riscoperta del cinema indipendente è funzionale al ricostruirsi una verginità ideologica, adeguata alle aspettative di una nuova generazione di pubblico.
Di questo cambio di passo, la quasi-vittoria di Boyhood agli Oscar 2015 (poi vinti dal più canonico e autoreferenziale Birdman) fu il principale segno premonitore. Il film di Linklater, come soprattutto la sua ricezione, evidenziò in tempo reale un mutato atteggiamento del mainstream nei confronti di un cinema fino ad allora ritenuto inavvicinabile. Del film in sé molto si è detto e scritto; l’approdo su Netflix è l’occasione per reinquadrarlo, non come curiosità, ma come ambiziosa e ammirevole operazione diplomatica, tra classicismo narrativo e avanguardia.
Crazy Rich Asians – Jon M. Chu (2018)
Passato del tutto inosservato nel mondo, Crazy Rich Asians è un altro lavoro fondamentale per comprendere il cambiamento in atto nelle meccaniche produttive hollywoodiane.
Distribuito nel 2018 come timido medio-budget destinato alle famiglie statunitensi di lontana ascendenza sino-nippo-coreana, il film di Jon Chu sconvolse le previsioni con numeri da autentico blockbuster (peraltro in un periodo di flessione importante per il sottogenere della rom-com). Per la sua capacità di andare oltre il proprio target facendosi successo trasversale, furono in molti a definire il filmetto come il Black Panther asiatico – nel senso di vaso di Pandora scoperchiato su un nuovo pubblico presente (e pagante) su suolo USA, da sempre ignorato.
Crazy and Rich, inutile dirlo, è meno rivoluzionario di quanto non lo sia il suo successo; una commedia romantica molto tipica, collocata nell’apprezzato e solidissimo filone “rosa-etnico” fiorito ad inizio anni 2000 per sorridere delle nuove, buffe minoranze integrate. Ma le stesse minoranze di cui una volta si rideva, oggi vanno al cinema in massa, spostando milioni e ridefinendo gli standard. E l’inclusività, da vezzo, diventa necessità.
American Psycho – Mary Harron (2000)
La disponibilità immediata e totale data dall’on demand, incrociata dalla pervasività di meme e clip, ha regalato a più di un film semi-dimenticato una seconda giovinezza. Tra questi rientra sicuramente l’American Psycho di Mary Harron, passato in capo a pochi anni, forse addirittura pochi mesi, da classico film “per nessuno”, ignorato tanto dal grande pubblico quanto dall’effettivo target (i fan di Bret Easton Ellis), a piccola visione obbligatoria.
Chiunque si sia mai approcciato al testo dell’autore, sa quanto impensabile resti la suggestione di una trasposizione letterale. L’American Psycho di Harron aggira dunque la questione, proponendo una chiave di lettura diametralmente opposta a quella originaria.
Realizzato a più di dieci anni dall’uscita del libro, il fenomeno dello yuppismo è raccontato nel film del 2000 come una imbarazzante e folkloristica sottocultura propria dei pacchiani eighties: e il tono scelto è quello di una black comedy derisoria, vagamente coeniana, satira all’acqua di rose sulla vanità dei “ricchi”. Più che l’allucinante caso psichiatrico delle pulsioni omicide che animano il consumismo occidentale, il Patrick Bateman di Bale e Harron sembra qui la versione incattivita di Derek Zoolander. E pertanto, cult retroattivo inevitabile.
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