T’ho visto dormì
su li banchi de la scola,
t’ho sentito russà
mentre stavi in moviola.
Ma ‘ste musiche belle
‘sti magnifichi sòni
ma quanno li componi?
(Sergio Leone)
Un viaggio alla scoperta di un sodalizio che ha fatto la storia del cinema.
T’ho visto dormì
su li banchi de la scola,
t’ho sentito russà
mentre stavi in moviola.
Ma ‘ste musiche belle
‘sti magnifichi sòni
ma quanno li componi?
(Sergio Leone)
La scuola era quella di Viale Trastevere, il compagno che russava sui banchi era Ennio Morricone. E l’altro che lo osservava dormire, e che gli ha dedicato questi versi intrisi di quella romanità che troviamo in tutto il suo cinema, è proprio Sergio Leone. C’è poco da girarci intorno: la coppia formata da Leone e Morricone è una di quelle che ha segnato un prima e un dopo nella storia del cinema.
Quentin Tarantino ha parlato più volte di Leone come del primo dei post-moderni, come uno dei suoi più grandi e costanti riferimenti. Ed è facile intuire quindi cosa abbia significato per lui poter realizzare il suo personalissimo western potendo contare sulla musica di Ennio Morricone, portandolo a vincere il suo primo e ultimo premio Oscar per la colonna sonora.
The Hateful Eight è in effetti la chiusura di un cerchio, che comincia senza ombra di dubbio con Per un pugno di dollari e attraversa tante cinematografie, fornendo un modello di ispirazione ad autori delle più diverse estrazioni. Da Stanley Kubrick a John Carpenter, passando per la fortuna dello spaghetti western e arrivando sino agli autori americani di un certo cinema di genere, il duo formato da Leone e Morricone divenne un classico istantaneo.
Ma come si diventa classici? Come si riscrivono le regole di un genere, che in Italia arrivava come l’eco lontana di un mito? Entrare nello specifico della materia filmica ci permette di comprendere davvero la potenza dell’arte di Leone e Morricone, che è rimasta alla storia come una grandissima lezione di cinema.
Michel Chion parla del suono nel cinema come di “quel qualcosa che cerca il suo posto”. È una materia fluida, quella sonora, capace di entrare e uscire dai confini fisici dell’inquadratura, creando tanti piani di ascolto differenti rispetto alla semplice immagine.
Morricone era perfettamente conscio del rapporto tra la musica di scena, quella che è detta diegetica, e quella che è invece extradiegetica. È un continuo compenetrarsi tra l’immagine e ciò che è fuori campo, e ce ne fornisce un esempio brillante in Per qualche dollaro in più.
Il secondo capitolo della trilogia del dollaro è l’occasione per Sergio Leone di superare le debolezze che riconosceva in Per un pugno di dollari, da lui considerato il suo peggior film. L’elaborazione di soluzioni più raffinate, di scrittura e regia, si accompagna quindi alla ricerca musicale che segna l’intera carriera compositiva di Morricone.
Così quasi tutta la colonna sonora si articola come una variazione sull’ipnotica melodia che sorge da un oggetto di scena, l’orologio de El Indio. Sul suo carillon rintoccano gli ultimi istanti di vita di Brad nella scena della chiesa sconsacrata, in cui Morricone ha un’intuizione geniale.
La citazione organistica ne La resa dei conti, che riprende l’inciso iniziale della Toccata e Fuga in Re minore di Bach, è una sorta di illusione diegetica. Siamo in una chiesa, ma nessuno sta suonando l’organo; eppure l’effetto che ottiene in questo modo è quello di creare una giuntura impossibile tra la scena e l’extradiegetico, il tutto costruito sull’eterno ritorno delle poche note dell’orologio.
Certamente Morricone e Leone non sono stati i primi, né gli ultimi, a lavorare sui diversi livelli dell’audiovisione. Come i grandi geni della storia, però, hanno saputo apportare dei contributi apparentemente insignificanti, ma che invece assumono la potenza di una rivoluzione.
Si pensi al finale de Il buono, il brutto, il cattivo, a quel momento indimenticabile stampato nell’immaginario di tutti. “Ehi Biondoo! Lo sai di chi sei figlio tu?”: su quel “puttaaana” l’urlo si fa musica. Ma la musica la conosciamo, è il leitmotiv di tutto il film; è quel la-re-la-re-la, a cui infatti prontamente rispondono le trombe con la sordina. Allora, piuttosto, è la musica a farsi urlo: Leone e Morricone ribaltano i rapporti tra il diegetico e l’extradiegetico, invertendo la direzione di quella transizione. La musica esterna alla scena viene quindi ricondotta ad un elemento interno, con un procedimento che ha davvero rari precedenti.
Parlare di un capolavoro come Il buono, il brutto, il cattivo non può che costringerci a tirare in ballo anche quella scena: il cimitero di Sad Hill è il momento di una compiuta e totale sintesi audiovisiva. Il crescendo orchestrale, alla maniera rossiniana, de L’estasi dell’oro, sembra generare le vorticose panoramiche con cui Sergio Leone insegue Eli Wallach correre alla ricerca della lapide di Stanton.
Ma come funzionava realmente? Era la musica ad indicare la direzione a Sergio Leone, o erano i suoni a sprigionarsi dai moti così armonici della macchina da presa? Al di là della poesia, storicamente la musica si adegua alle immagini: è sempre stata anche una questione di esigenze tecniche e produttive, per le quali la musica veniva quasi sempre incisa sul girato.
Narra la leggenda che Sergio Leone avesse sul set degli altoparlanti che trasmettessero le musiche di Morricone, per aiutare gli attori a sentire una certa atmosfera. Ma ben oltre la leggenda, c’è la verità di un’innovazione che colpì persino Stanley Kubrick in persona.
Parliamo dell’arrivo di Jill a Flagstone, in C’era una volta il west. Di quella scena magnifica che vede scendere Claudia Cardinale dal treno su quel tema indimenticabile. La cittadina viene svelata da un dolly a volo d’angelo che spezza il fiato per la sua bellezza. Leone misurò la salita della macchina da presa sul crescendo con cui l’orchestra apre ed espande il tema di Jill.
Se prima parlavamo di sintesi audiovisiva, qui sarebbe più opportuno parlare di simbiosi. Uno di quei momenti irripetibili nella storia del cinema tutto, in cui non ci interessa più sapere cosa sia stato realizzato per primo, se il girato o la musica che lo accompagna, perché è come se si creasse tutto nello stesso momento.
Nel cinema di Sergio Leone ed Ennio Morricone ci sono dei leitmotiv che associamo immediatamente al loro nome. Potremmo citare il fischio, quel marranzano così fuori contesto, certi timbri o certe sferzate rock. Allo stesso modo quei primi piani che sono davvero la cifra dello stile registico di Sergio Leone.
Dopo C’era una volta il west Leone non avrebbe più girato film western: in Giù la testa non rimane che sullo sfondo delle vicende della rivoluzione messicana. Con C’era una volta in America la seconda frontiera americana è ancora più lontana, e con lei i motivi ricorrenti di un genere che lascia spazio ad un’enorme epopea gangster.
Con il suo ultimo capolavoro Sergio Leone ebbe l’occasione di dimostrare di poter separare le forme dai contenuti, ovvero di non essere identificabile e riducibile con il genere che ne aveva decretato la fortuna. Il primissimo piano che conclude C’era una volta in America ne è la dimostrazione inequivocabile. È un tratto distintivo del suo stile, ma in un contesto completamente diverso.
Allora, per concludere, è debito citare uno dei momenti più belli della collaborazione tra Leone e Morricone. Pochi secondi che valgono un’intera filmografia, e forse riassumono queste poche righe che cercano dentro inquadrature e partiture il segreto di una leggenda.
Il Tema di Deborah è per molti una delle composizioni più belle di Morricone. Lo ascoltiamo in particolare in un momento del film, mentre seguiamo Noodles che rivive il suo passato. Una feritoia in un muro, in cui la macchina da presa entra con un lentissimo carrello, è il ponte impossibile con un ricordo lontano. La musica modula, da grande sinfonismo si fa piccolo brano da camera nel gracidante grammofono che accompagna i timidi passi di danza di Deborah.
In questa transizione tra il livello esterno della musica e quell’interno c’è tutto il senso del film probabilmente. In quel primo piano sullo sguardo di un Noodles ormai disilluso, e in controcampo la memoria di una giovinezza violata, c’è tutto il cinema di Sergio Leone. Che al di là di ogni possibile classificazione filmologica, alla base, è sempre un’evocazione fiabesca che muove da una convinzione. Il cinema, in qualche modo, può salvarci dal tempo che passa inesorabile. E in fondo ci rende eterni: per lo meno, ha reso immortali Sergio Leone ed Ennio Morricone.
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