“Scommetto che nove persone su dieci, se vedono una donna dall’altra parte del cortile intenta a spogliarsi per andare a letto, o anche un uomo che gironzola nella sua stanza, rimangono la a guardare; nessuno si allontana e dice “Non sono affari miei.” Potrebbero abbassare le persiane, ma non lo fanno mai; stanno lì e guardano fuori “
[Hitchcock a Truffaut]
Il voyeurismo ed il cinema sono sempre andati di pari passo, venendo anche accostati numerose volte. Vestito per uccidere è forse uno dei film più rappresentativi di questo concetto, almeno per quanto riguarda gli anni ’80. La perversione insita nello sguardo di chi scruta, consapevole di non poter essere osservato a sua volta, ha contribuito a fare del cinema di Alfred Hitchcock un atto artistico conscio della sua funzione primaria e di Brian de Palma uno stimatore del tutto.
Non è un caso infatti che Vestito per uccidere ricalchi, con le ovvie e dovute differenze, la struttura narrativa di Psycho, sebbene sia a tutti gli effetti un’operazione divergente e con un’identità propria. L’opera del regista statunitense infatti, oltre ad essere più esplicita e carnale nel suo erotismo, è anche meno subdola nei suoi inganni.
Il serial killer, volutamente e facilmente deducibile dall’inizio, poiché parte integrante di una struttura narrativa ampiamente metabolizzata col tempo, è solo un pretesto per rendere ancora più masturbatorio, e quindi intellettualmente erotico, il thriller di Brian de Palma.
Il tema del doppio insito nel film, sia al livello di testo che di meta-testo, è di ovvia hitchcockiana memoria ma, a differenza di Psycho, più sfrontata nei confronti di una sessualità inappagata ed inappagabile. Vestito per uccidere è per ciò un manifesto estetico che anticipa e precede tutto quel che poi sarebbe venuto dopo nel corso degli anni ’80, dando così nuovo lustro al genere.
4. Ho camminato con uno Zombie – Jacques Torneur (1943)
“Gli attori che scelgo rimangono sempre sorpresi nel vedere quanta attenzione riservo ai particolari e a loro stessi. Le pellicole horror hanno la tendenza ad utilizzare solamente i corpi (degli attori). Tra me e loro c’è tutt’altro tipo di rapporto…”
[Jacques Torneur]
Ho camminato con uno Zombie è un film esotico e gotico al tempo stesso, ma anche un’opera in grado di destreggiarsi abilmente tra l’illogicità e la razionalità del racconto, facendo coabitare il tutto senza la minima contraddizione.
Il lavoro di Jacques Torneur è quindi volutamente ambiguo nella narrazione, tanto da rendere quell’incomunicabilità tra culture divergenti un oggetto di fascino e macabro piacere. La conseguente impossibilità della protagonista di decodificare il reale e di resistere al fascino, o meglio alla bellezza, dell’ignoto diviene così un’opportunità per l’autore di rendere il genere maggiormente psicologico. introspettivo ed intellettuale.
A differenza di altri film, soprattutto di quelli della Universal, qui non vi è una sola immagine o figura a deturpare ed esplicitare la costruzione orrorifica del regista. Nulla viene palesato o mostrato al pubblico, lasciando integra la vitalità dello scontro ideologico tra scienza e religione presente nell’intreccio.
Sono quindi i sensi, o meglio le percezioni, a dover guidare lo spettatore attraverso le suggestioni del racconto, ove il lato decadente del gotico seduce ed incontra di continuo l’apparente illogicità dell’esotico. La “superficie” rimane così uno scoglio che l’occhio umano non riesce ad aggirare e in cui anche lo sguardo della telecamera, sedotto dalla magia che scaturisce proprio da questa fatalità, non sempre vuole oltrepassare.
5. Quel pomeriggio di un giorno da cani – Sidney Lumet (1975)
“Quello che stiamo per assistere è tratto da fatti reali, avvenuti a Brooklyn, New York il 22 agosto del 1972”.
[Introduzione al film]
Il mondo in un stanza, o meglio la società americana ed il suo sogno infranto all’interno di una banca. Sidney Lumet dopo aver fatto una breve, ma non per questo meno esaustiva, panoramica antropologica della città di New York, decide di eliminare qualsivoglia distrazione e di concentrarsi esclusivamente sull’interazione tra i personaggi, sulle loro scelte politiche e le ideologie che le animano.
Il regista quindi, omettendo al livello scenico la metropoli ove il racconto si svolge, fa emergere, mediante le azioni dei personaggi e la situazione costringente in cui si ritrovano, il quadro sintomatologico della società dell’epoca.
Un’opera-icona dei suoi anni, non solo perché in grado di raccontare la disillusione di quel periodo e l’indole rivoluzionaria dei vari moti giovanili che li contraddistinguevano, ma anche perché capace di incarnare perfettamente le nuove estetiche hollywoodiane.
Gli Stati Uniti stavano quindi cambiando. Le lotte contro il perbenismo, la repressione sessuale, il capitalismo e la guerra nel Vietnam diventavano sempre più insistenti e così il cinema fu costretto ad adottare un corpo più politico e grezzo: più diretto e meno romantico. Quel pomeriggio di un giorno da cani è perciò una risposta a molteplici necessità e che fa della parola, ma anche della sceneggiatura, la chiave di volta di qualsiasi rivoluzione.
Sperando che questa rubrica sia stata di vostro gusto, vi diamo appuntamento al prossimo mese con altri consigli d’autore. Se volete altre imbeccate del genere, troverete qui la nostra rubrica dedicata ad Amazon e Cinema d’Autore.