American Gods è une delle tante gemme che è possibile trovare nel catalogo di Amazon Prime Video. Tratto dal romanzo omonimo di Neil Gaiman, la serie ruota intorno alla volontà del vecchio Odino (Ian McShane) di fare una guerra agli nuovi dei, che hanno minato la fede degli americani.
Serie in grado di miscelare elementi del folclore, discorsi etnici e il fantasy nella sua forma più primordiale, American Gods si è sempre distinto per un tipo di narrazione lenta e diluita, che prevede un racconto che procede per ramificazioni, perciò non sempre in linea retta. Un tipo di affabulazione che, sebbene trovasse la propria ragione di essere già nel romanzo di Neil Gaiman, nella serie esplode, rappresentando quasi un viaggio sensoriale.
Una ramificazione che si intensifica ancora di più nella terza stagione e che è arrivata a mostrare i punti deboli di una serie che sembra aver bisogno delle divagazioni per avere il tempo necessario a comprendere la destinazione a cui tendersi.
Dove eravamo rimasti
Quanto segue, ça va sans dire, rappresenta uno spoiler per chi non ha visto le prime due stagioni di American Gods.
La seconda stagione della serie di Amazon Prime Video si era conclusa con un colpo di scena non indifferente: Mad Sweeney (Pablo Schreiber) aveva cercato di uccidere Mr. Wednesday, ma nel farlo era incappato in Shadow Moon (Ricky Whittle) che lo aveva ucciso, subito dopo aver scoperto la sua discendenza semi-divina.
Morendo, però, Mad Sweeney era riuscito a nascondere la lancia di Odino, necessaria alla guerra, nella propria orda e, in questo modo, l’aveva resa irraggiungibile. Una piccola vendetta per il leprecauno che spira, un attimo prima di essere raggiunto da Laura Moon (Emily Browning) che se lo carica in spalla e lo porta via, lasciando agli spettatori la speranza di poterlo rivedere, un giorno.
Una stagione sull’elaborazione del lutto
L’aspetto decisamente più riuscito della terza stagione di American Gods è rappresentato dal modo in cui viene affrontato il tema del lutto. Più di un personaggio, in questo nuovo arco di episodi, deve affrontare una perdita piuttosto importante e deve imparare a scendere a patti non solo con il dolore, ma anche con l’idea di dover andare avanti.
Un percorso che riguarda soprattutto Laura Moon: è lei il cuore di questa terza stagione, il lato più interessante di una storia che altrimenti appare così tanto diluita da risultare a tratti estremamente noiosa.
Pur non volendo fare spoiler su quanto accade al personaggio, Laura è portata a rivedere le sue scelte, la sua vita e anche le convinzioni che l’hanno fatta diventare la persona che è. E in questo processo di autoanalisi, la sua attenzione si ferma soprattutto sul suo rapporto su Sweeney e sulla presa di coscienza non solo dei suoi sentimenti, ma anche di quel fatidico troppo tardi che pesa come una condanna.
Se la prima stagione rappresentava un dipinto psichedelico pieno di azioni e intrighi, la terza stagione rappresenta il suo opposto. Da una parte si è cercato (anche fin troppo) di ricreare un intreccio pieno di legami, ma la vera attenzione è posta sul lato più umano dei personaggi, su quell’intimità che emerge con maggior forza.
È con una certa eleganza che viene affrontato il tema dell’elaborazione del lutto, ma anche della presa di consapevolezza di limiti e paure: in questo olimpo fatiscente di dei, la bellezza e la radiosità viene proprio dai personaggi imperfetti, insicuri. Compreso Wednesday: abituati come siamo a vedere il suo lato manipolatore, restiamo sorpresi e affascinati quando vediamo ciò che di più fragile c’è in lui.
Un albero con troppi rami
Tuttavia, nonostante questo affascinante lato più umano, la terza stagione di American Gods appare come un guazzabuglio di storie e personaggi che, al di là della scelta “psichedelica” tipica della serie, finiscono con l’apparire di troppo: troppo scollegati, troppo arrovellati su se stessi.
La sensazione che ha lo spettatore nel procedere nella visione è quella di vedere più serie insieme: ci sono troppi pezzi del puzzle che non combaciano e i personaggi molto spesso sembrano fermi su se stessi, incapaci di avanzare. L’effetto è quello di una storia che ha bisogno di allungare il proverbiale brodo per cercare di arrivare a un minutaggio sufficiente.
La trama è troppo ingarbugliata e molto spesso si perde in divagazioni totalmente inutili: in passato le digressioni hanno sempre fatto parte del mondo di American Gods, ma erano quasi sempre tese alla realizzazione di un quadro più ampio.
Nella terza stagione il “quadro più ampio” non altro che un guazzabuglio di colori che sembrano essere gettati a caso, senza alcun piano narrativo alla base. E il risultato è un sentimento crescente di disinteresse che si trascina fino all’ultimo episodio, che vorrebbe accomiatarsi con un cliffangher, ma che appare soprattutto uno stanco esercizio di stile.
Nota di valore a margine sono senza dubbio i personaggi nuovi e più secondari: su tutti Danny Trejo e Iwan Rheon che, archiviato il ruolo del malvagio Bolton in Game of Thrones appare come nuovo leprecauno.