Spendiamo ora qualche parola sul secondo film di un altro regista che, pur in una filmografia limitata, vanta solo grandi film.
Andrej Tarkovskij ha sempre voluto legare il proprio cinema più alla musica e alla poesia che alla letteratura per riflettere su temi più universali che umani. Frutto di una travagliata produzione, pesantemente ostacolata dal regime sovietico e dalla censura, Andrej Rublëv ha un’impronta più personale e lirica del predecessore.
Diviso in episodi con prologo ed epilogo, il film si ispira alla vita del pittore omonimo (1360-1430), considerato il più grande nell’ambito delle icone. La sua esistenza, segnata da drammi esistenziali e spirituali, si dipana durante il drammatico secolo XV, segnato da lotte intestine, pestilenze e invasioni. Il protagonista è interpretato da Anatolij Alekseevič Solonicyn, attore feticcio di Tarkovskij.
Il film è in bianco e nero, a eccezione dell’epilogo, che mostra immagini delle vere opere realizzate dal pittore. Numerose sono le scene che mostrano corsi d’acqua, specchio di una purezza contaminata dalla crudeltà umana.
Opera molto complessa, la riflessione principale riguarda l’arte come macrocategoria, in relazione al periodo storico in cui prende forma. Nel caso di Rublëv, egli rifiuta di mostrare il proprio talento per spaventare la gente con dipinti violenti come “Il giudizio universale”.
Infatti, il pittore ha fiducia nelle persone e nella loro fede. Tuttavia, l’invasione dei Tartari lo metterà di fronte alla crudeltà dell’essere umano, innescando un cambiamento profondo nella sua personalità. Da allora egli decide di raccogliersi nel silenzio, amareggiato dalle pieghe del corso della storia. Evidente l’immedesimazione di Tarkovskij, che proprio con Andrej Rublëv si attirò l’ostilità del regime sovietico che mai l’avrebbe abbandonato.
La versione originale del 1966 durava 205’, ma l’eccessiva lunghezza di alcune scene e la crudezza di alcune immagini, purtroppo, obbligarono il regista a effettuare dei tagli. Il processo fu lungo, tanto che il film uscì in buona parte del mondo solo nel 1969, con la durata di 186’.
Il regista, anni dopo, riconobbe comunque la versione tagliata come la principale, sia per il successo avuto sia perché non intaccava l’integrità dei contenuti interessanti. Ma con Tarkovskij si sogna ad occhi aperti, quindi a noi va bene qualsiasi sua decisione quando è lui al timone.
Infine, molte sono le opere che si sono ispirate al film: da È difficile essere un dio, di Aleksej Jur’evič German (2013), al cinema di Béla Tarr e di Alejandro González Iñárritu (2015).