Anche Ingmar Bergman è un regista talmente perfezionista che è difficile fare preferenze tra i suoi film. Sicuramente, però, Il film del 1966 è il suo film più sperimentale.
L’attrice Elisabeth Vogler (Liv Ullmann) si chiude in un improvviso mutismo poco dopo aver portato in scena l’Elettra di Sofocle. Siccome non si tratta di afasia, l’ospedale psichiatrico in cui è rinchiusa le affida Alma, una giovane infermiera (Bibi Andersson), con il compito di farla tornare a parlare.
Isolatesi assieme, è Alma a prendere la parola, rivelando all’attrice particolari della propria vita. Sembra, quindi, che l’una prenda il posto dell’altra.
Di Persona abbiamo già parlato approfonditamente in passato. Stilisticamente, Ingmar Bergman instaura una sintonia perfetta con il direttore della fotografia Sven Nykvist: ogni fotogramma del film assurge a opera d’arte, lo studio dello spazio, la regia dei personaggi e la messa in scena sono minuziosi.
Come anticipato, la sperimentazione è massima: principalmente, ci riferiamo al montaggio frenetico iniziale di immagini violente ed esplicite avulse dal contesto e inquadrature sfuocate. Curioso il libro che legge il bambino dell’inizio del film (già presente in Il silenzio di Bergman), cioè Un eroe del nostro tempo, di Lermontov: Elisabeth condivide alcuni aspetti del protagonista del romanzo.
Persona ha influenzato molti film, alcuni considerati dei capolavori del cinema. Menzione speciale va a Woody Allen, che esordisce alla regia di lungometraggi proprio nel 1966. Ricordiamo, inoltre, che il film venne anche recensito da Alberto Moravia in Al cinema. Centoquarantotto film d’autore, Milano, Bompiani, 1975.