A distanza di trentacinque anni quel folgorante lungometraggio esordio, She’s Gotta Have It, resta oggettivamente uno dei migliori film di Spike Lee. Lui stesso sembra saperlo, tanto che questo spudorato cult movie nel 2017 è diventato anche una serie, firmata dallo stesso regista.
Trovate entrambi, il cult movie e la nuova serie, sul catalogo Netflix. Ma noi non possiamo che consigliarvi di correre a recuperare questa “Commedia molto sexy”, che nel 1986 aveva scandalizzato i benpensanti, mostrando esplicitamente la vita sessuale di una giovane artista afro-americana.
La cosa più esplicita è che questi personaggi guardino costantemente in macchina, rompendo la fantomatica quarta parete, per mettere letteralmente a nudo le proprie contraddizioni, la verità della loro vita quotidiana.
Si dice (ancora oggi) che difficilmente il cinema hollywoodiano riservi a una donna il ruolo di protagonista assoluta. Mai era accaduto con una afro-americana. L’unico era precedente era infattiIl colore viola di Steven Spielberg. Peccato che Nola (Lola nella traduzione italiana) non sia una schiava, anzi una donna fieramente libera.
Il film ha essenzialmente il pregio di prendersi gioco di tutto: dall’oltranzismo femminista al Black Power, dagli artisti ai poeti e i filmmaker, fino al “modello nero” che odia la vita del ghetto e i suoi stessi “fratelli”, mentre sogna un futuro a Manhattan.
She’s gotta have it (Lei deve averlo) resterà forse il film più ironico, sperimentale, intenso e realista della carriera di Spike Lee. Un film di un realismo pasoliniano, che forse somiglia perfino ai Comizi d’amore, solo in versione “amore libero in quel di Brooklyn”.
La 25ª ora (25th Hour), 2002
Fin dai tempi di Fa’ la cosa giusta Spike Lee sembra offrire il suo meglio sul campo del film corale e del multilevel-drama. Una materia che sa infondere di sconcertante umanità , cercando la verità tra i volti, le strade, gli oggetti, le conversazioni casuali e i climax delle tragedie quotidiane.
È probabile allora che il suo miglior film resti La 25ª ora. Il regista che ha reso protagonista la prima donna afro-americana libera, che ha girato il primo film sul razzismo sistemico e la brutalità della polizia, il primo biopic su Malcolm X, sarà anche il primo regista newyorkese a mostrare Ground Zero.
La stessa struttura del film è quella di una ferita aperta. Monty Brogan (Edward Norton) è uno spacciatore appena condannato a 9 anni di carcere. Gira per le strade di New York come un condannato a morte.
Il protagonista, certo di essere stato “incastrato”, sa esattamente cosa lo aspetta, ed è convinto che in carcere, che si tratti di stupri o altre forme di sopraffazione e violenza, non potrà comunque sopravvivere. Organizza così le sue ultime ore di libertà come un grandioso addio alla vita.
E in questo grandioso addio a New York Spike Lee evoca l’11 Settembre, si addentra nei club, tra le gang criminali, mostra gli irlandesi e gli ebrei, gli italiani e i portoricani, come cercasse di mostrare insieme tutti i protagonisti di questo melting-pot impossibile.
Il risultato è un film struggente, una autentica tragedia contemporanea, realizzata da un autore in stato di grazia, che forse non ha mai amato tanto la sua città , i suoi attori. Un autore che sembra cercare ancora, ossessivamente la verità tra tante vite alla deriva, ma restituisce stavolta una fotografia nitida, priva di qualunque giudizio morale.