I Maneskin mostrano come si può fare rock in Italia senza snaturarsi ma parlando comunque a tutti
Rock. Potete essere dei detrattori dei Maneskin, o anche questionare la loro autenticità, ma questa parola non può non venirvi in mente all’ascolto del loro secondo album, Teatro d’Ira: Vol. 1. Il quartetto, ormai il gruppo di questo genere più famoso in Italia (specie dopo la vittoria a Sanremo 2021) è pronto ad invadere le classifiche con un disco ribelle e sincero.
Il rock dei Maneskin è profondamente giovanile, energico, spontaneo. Quando dicono di essere “diversi da loro” ci credono e tanto basta a giustificare la convinzione che emerge nei loro testi riflessivi e poetici. Del resto Damiano David canta “c’ho vent’anni” nell’ultima traccia del disco: ricorda che tutto ciò che lui e gli altri tre fanno corrisponde alle esigenze della loro età.
La tracklist dell’album si apre con l’ormai celeberrimo pezzo Sanremese, Zitti e Buoni, che subito convince delle intenzioni del quartetto. Ma è solo l’inzio: le altre canzoni (sono otto in tutto) viaggiano tra ottimi riff alla Led Zeppelin e ritmi rock sempre decisi che lasciano spazio ad una componente strumentale concreta che nella musica italiana viene spesso troppo appiattita.
Lividi Sui Gomiti, Nel Nome del Padre e La Paura del Buio sono le tre canzoni più valide, ma tutto l’insieme funziona. IManeskin abbandonano definitivamente il funk/pop dei tempi di Chosen e fanno anche un passo oltre il pop/rock di Morirò da Re. Qui il rock è selvaggio, audace e studiato per essere tale.
“Siamo fuori di testa / Ma diversi da loro”
Per gli ammiratori (vecchi e nuovi) della band si profila un ottimo ascolto. Per chi invece li conosce ma ne avversa lo stile come “di facciata”, si pone un dilemma: può la salvezza del rock italiano venire da un talent (X Factor) e poi da Sanremo? Perché è proprio quello che sta succedendo. E il padrino di questa rivoluzione, intoccabile, è lo stesso Manuel Agnelli.
Il punto è che il disco dei Maneskin, oltre ad essere un ottimo disco di rock italiano, mette di fronte ad una realtà che nella musica contemporanea molti non riescono ancora a comprendere. Che cosa è diverso? Cos’è alternativo? Cosa è ribelle? Il rock va bene solo quando è di nicchia e diventa automaticamente “venduto” quando raggiunge le masse?
I Maneskin hanno dimostrato e stanno dimostrando una capacità di appeal che si rivolge in più direzioni. Quasi un dogma la loro recente dichiarazione: “Siamo ribelli, non scemi”. Che lo sfogo giovanile dei loro vent’anni lasci filtrare una consapevolezza del loro ruolo ben più ampia di quanto si sospetterebbe, lo prova già la decisione molto poco “rock” di auto-censurare Zitti e Buoni.
Se quindi i Maneskin non sono i Verdena, non sono gli Zen Circus, non sono i Timoria (e del resto non sono nemmeno gli stessi Aftehours), forse il pubblico dovrebbe però essere pronto ad accettare che un gruppo che raccolga bene queste eredità possa anche avere successo. I tempi del rock (italiano) fieramente “outsider” sono passati. Ed è un bene, credeteci.