Lana Del Rey commenta il nostro tempo con grottesca tristezza
Impressionante vedere come, dopo dieci anni, la formula musicale di Lana Del Rey funzioni ancora alla perfezione. La cantante non ha mai veramente affrontato un’evoluzione nel suo suono, se si eccettua la breve parentesi più rock di Ultraviolence (2014). Eppure, le sue canzoni sono convincenti oggi come ieri.
E la metafora delle “scie chimiche” sopra il “country club” le consente stavolta non solo di dare voce alla propria amara malinconica, ma di conferirle un colore grottesco e opaco in linea col periodo che stiamo vivendo. Si può tranquillamente dire che mai un disco di Lana Del Rey sia stato tanto adatto al suo tempo.
L’album è un concentrato di dark pop, genere del quale l’artista è fautrice nella sua forma più acustica e melanconica. Molte tracce sfruttano solo piano e voce, ma come sempre a catturare sono le melodie e le vocalità fortemente sofferenti. C’è spazio però anche per altro, molto altro.
Se la title track rimane la canzone migliore, altre ne emergono e rispondenti alle più diverse influenze, ma sempre racchiuse dalla cantante in un insieme coerente. Abbiamo quindi il trip hop molto inizio anni ’00 di Dark But Just a Game, il sottile country rock di Not All Who Wander Are Lost, il delicato romanticismo di Let Me Love You Like a Woman. E così via.
Tra i brani migliori aggiungiamo anche Wild at Heart (un riferimento al film di David Lynch?) e il quadro è completo. La Del Rey si riconferma regina della malinconia, in un’epoca nella quale questo stato d’animo è ormai quasi divenuto una condizione esistenziale. E ancora una volta, lei ne è la principale interprete.
Se quindi Chemtrails over the Country Club non aggiunge nulla rispetto a quanto affermato da Norman Fucking Rockwell (2019), abbiamo comunque un altro ottimo lavoro di un’artista che riesce a restare sempre la stessa e a farlo bene. Una lunga fila di gioielli oscuri, questi album, che vanno risentiti e apprezzati per la loro continuativa coerenza.