Lontani i tempi in cui Alexandre Aja e il resto della scuola euro-horror aveva in mano le sorti del sottogenere nel cinema mondiale. Quella del così detto splat pack di inizio millennio, che tra il 2003 e il 2008 rilanciò la voglia di gore e sangue in un panorama horror anemico, resta una parabola irrimediabilmente legata al suo periodo storico.
La scoperta dei mercati internazionali, la disponibilità totale data dal diffondersi del peer to peer, e ovviamente le paranoie esotiste legate al terrorismo montante. Parabola ormai finita e conclusa: oggi lo standard è la Blumhouse, e lo slasher è scomparso di nuovo.
Aja di quella scuola era uno dei nomi di punta, e dopo un paio di titoli rivedibili, ricompare ora al cambio di decennio con un lavoro degno dei bei tempi. Crawl è il suo miglior film almeno dai tempi di Piranha 3D (2010), un lavoro di tecnica sopraffina abilmente adeguato ai nuovi standard action.
Merito ovviamente di Sam Raimi, in produzione, nel saper finalmente rimettere in carreggiata l’ormai ex enfant prodige.
Final Destination – James Wong (2000)
Proseguendo il discorso legato all’horror mainstream, più di un classico ha fatto la sua comparsa a sorpresa tra le offerte Netflix di inizio marzo.
Per anni messa da parte pubblicamente come saga più cretina del già di per sé cretino cinema dell’orrore americano degli anni 2000, Final Destination fu in realtà per anni l’unica decente alternativa hollywoodiana alla succitata ondata di horror etnico che in quel periodo ne soppiantava la mortifera industria.
A partire dallo spunto più folle possibile (la morte che “insegue” i malcapitati, come un Terminator metafisico), la piccola saga low budget avrebbe campato per ben cinque capitoli, spalmati lungo un decennio intero. Poi arrivò Saw, la passeggera moda dei found footage, i gusti del pubblico cambiarono, e la creatura di Wong finì consegnata a un prematuro dimenticatoio.
Il primo capitolo di Final Destination non ha ancora modo di portare alle estreme conseguenze il leggendario spunto di partenza della saga. Pianta però i paletti di quella che per un periodo sarebbe diventata una gradita ricorrenza dei multisala. In attesa del caricamento completo, gli si può ora dare lo spazio che si merita; presto o tardi, si arriverà al reboot.
Scemo & più scemo – Peter Farrelly (1994)
Il Jim Carrey revival di questi anni parte da lontano. Almeno dallo scorso 2014, quando dal pieno del suo esilio la star rispolverò il suo classico in coppia con Jeff Daniels per dargli un apprezzatissimo sequel.
Da allora, l’attore si è progressivamente riavvicinato alle scene, con la sua nuova aura da santone e un passato personale recente segnato da traumi e crisi mistiche. La sua prima parte di carriera sembra oggi quanto di più lontano possibile rispetto alla nuova persona proposta al pubblico.
Una dicotomia al centro di una sorta di continua autoanalisi artistica (vedasi Kidding): ma proprio questo non fa che aumentarne il valore storico.
Con il classico del lontano 1994, Carrey chiuse una tripletta senza precedenti nella storia della commedia (completata da Ace Ventura e The Mask), in grado di imporlo da soggetto televisivo semi-sconosciuto a star planetaria nel giro di pochi mesi.
Ma non è tutto qui; Scemo & più scemo è anche il lavoro di lancio dei Farrelly Bros, e dunque, indirettamente, punto di partenza per quella nuova ondata di commedia demenziale che si sarebbe declinata in vie sempre più truci nei primi anni del 2000 (figli suoi anche il clan Wayans e gli American Pie).