Morto Troisi, viva Troisi! Vivo Massimo Troisi, vivo sempre anche quando gioca a fare il morto. Vitale e leggiadro nella scrittura persino nel mettere in scena la sua dipartita, ironizzando sullo spettro della morte che aleggiava su di lui sin da bambino, per via delle sue disfunzioni cardiache. ‘O ssaje comme fa ‘o core, cantava Pino Daniele musicando proprio un suo testo che parlava d’amore e dolori.
E continua la canzone: Je te guardaje, Troisi all’amore lontano. Un po’ come quel malato di cuore di Spoon River, raccontato da Edgar Lee Masters e cantato poi da Fabrizio De André, che ricorda con malinconia l’amore baciato col cuore sulle labbra. Forse non per 21 minuti come Luigi in Splendor, ma una cosa è certa: quando sei costretto a seguire il ritmo balordo del tuo cuore malato, da uomo avverti il tempo sprecato.
Massimo Troisi sentiva il tempo in maniera diversa, e non solo lo scorrere di ogni occasione preziosa. Aveva una sensibilità rara nell’essere interprete del suo tempo, e in fondo anche del nostro. Così la breve carriera che ci ha lasciati tutti un po’ più soli e più tristi quando si è chiuso il sipario, ci ha regalato più di un sorriso.
Ricomincio da tre: lo sguardo, la realtà, l’anti-eroe
Ricomincio da tre, suo esordio alla regia del 1981, è in fondo il racconto di un uomo che è figlio rinnegato dalla sua epoca. Di quello che è passato agli onori della critica come l’antieroe troisiano. I suoi personaggi rompono con tutte le tradizioni, sia quelle del palcoscenico napoletano, sia con quelle di una certa commedia italiana, che iniziava a rimanere impigliata in schemi già abusati.
Il debutto di Troisi tracciava una nuova via nella commedia nostrana, capace di affrontare i Tempi Moderni quasi in senso chapliniano. Gli sconvolgimenti di un’era fanno piccolo l’uomo-Troisi, non tanto giuntura tra il tragico e il comico ma tra il surreale e il reale, come in tanto suo cinema. E quell’incontro col reale diventa occasione di analisi sociale, di una fenomenologia della contemporaneità di cui Troisi è un timido sfidante.
Gaetano ricomincia da tre, dalle poche cose che gli sono riuscite bene nella vita, per affrontare un mondo che gli rimane estraneo. Estraneo come lo sguardo di quella telecamera fissa, cifra stilistica del suo cinema, che rimane sempre, ancora, lontana e distaccata. Come il malato di cuore scruta distante, ma ha la capacità allo stesso tempo di trasformare la scena in teatro.
E quello sguardo lontano sull’amore è quello di un uomo a cui il pianeta donna rimane alieno e incomprensibile. La narrazione che Troisi intesse del mondo femminile ha un’idea alta dei movimenti femministi di emancipazione, e cerca di leggerli come parte di quella realtà complessa di fronte al quale rimane inerme e confuso.
Massimo Troisi, Totò e la commedia all’italiana
Le vie del signore sono finite, ma non lo sono quelle del cinema. Lungo la sua carriera Massimo Troisi avrebbe incontrato il cinema istituzionale, la commedia d’autore, e ne sarebbe stato un tassello fondamentale. In una tradizione eterogenea come quella della commedia all’italiana, tanta regionalità ne costituisce spesso un motivo fondamentale. Senza dubbio si potrebbe parlare, ad esempio, di una sorta di scuola romana, fatta di attori e cineasti che della romanità hanno fatto un modo ben preciso di intendere il cinema e la commedia.
Da queste regionalità manca con la stessa incisività una generazione di grandi attori napoletani, tutti orfani del gigante Totò, grande precursore della commedia all’italiana. Massimo Troisi è in questo senso l’autentico erede di Antonio de Curtis, avendo avuto l’occasione di rafforzare il sodalizio tra la napoletanità e la commedia all’italiana, iniziato realmente proprio con uno degli ultimi film di Totò, Operazione San Gennaro di Dino Risi.
Senza dubbio se si dovesse indicare il padre di questo genere, insieme a Luigi Comencini e Mario Monicelli, ci sarebbe proprio Dino Risi. Con Il sorpasso nel 1967 imponeva irreversibilmente quel punto di vista all’italiana che pochi anni prima era stato del Divorzio di Pietro Germi. Negli autori de Il Sorpasso vi è però anche un certo Ettore Scola, tra i più grandi e troppo spesso trascurati autori della stagione dei grandi maestri del cinema italiano. Sarà lui il padrino d’eccezione della grande stagione cinematografica di Massimo Troisi.
Massimo Troisi ed Ettore Scola
Con il trittico formato da Splendor (1989), Che ora è? (1989) e Il viaggio di Capitan Fracassa (1990), il sodalizio tra Scola e Troisi ha dato vita ad alcune delle interpretazioni più importanti dell’attore napoletano.
Lo Splendor è sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo!
Dal cinefilo disincantato, voce narrante della morte incombente del cinema, al letterato in servizio di leva che gli è valso la Coppa Volpi nel 1989, con Splendor e Che ora è? Scola trova una chimica di scena perfetta tra Mastroianni e Troisi, siglando definitivamente l’avvenuto incontro di due mondi nel rapporto tra un padre e un figlio.
In questi film Troisi è costretto ad abbandonare definitivamente il napoletano, autentico bagaglio di regionalità. Più che una lingua, era il suo mezzo espressivo di definizione, in tutte le sue sfumature, inflessioni ritmiche e metriche. Troisi era capace di sottolinearne la potenza poetica, la forza plastica e la musicalità, risultando sempre popolare, ma mai volgare.
Con Il viaggio di Capitan Fracassa però Scola e Troisi chiudono il cerchio, tornando direttamente alle radici più profonde della maschera partenopea. Letteralmente: la matrice della commedia dell’arte, così determinante per la formazione teatrale di Troisi, è la struttura fondante della barocca messa in scena di Scola, e il suo soggetto narrativo. Su questo sfondo, Troisi trasfigura in Pulcinella, identificandosi definitivamente con i motivi più profondi della sua essenza artistica.
Benigni e gli ultimi film
Se si dovesse eleggere il partner di scena per eccellenza di Troisi, non si potrebbe non trovarlo in un’altra mina vagante della commedia italiana, Roberto Benigni. Il loro Non ci resta che piangere, del 1984, resta senza dubbio uno dei capisaldi dei cult cinematografici nostrani. Un film recitato e diretto a quattro mani, in cui l’improbabile alchimia di due personalità così differenti, e ancora così regionali, catalizza il surreale.
Troisi sarebbe tornato ad un’ultima regia firmata solo nel 1991 con Pensavo fosse amore…invece era un calesse. Se da un lato segna un ritorno ai temi degli esordi, specie nel racconto di quel mondo femminile lontano, d’altro canto troviamo una certa evoluzione nella regia e nella scrittura, in cui Troisi ha evidentemente raccolto un decennio di esperienza.
Con Il Postino Massimo Troisi compare per l’ultima volta sul grande schermo, sotto la regia di Michael Radford. E forse, in fondo, nell’incontro tra Mario Ruoppolo e Pablo Neruda si può sintetizzare un’intera carriera, una visione del cinema, della propria arte e forse della vita. Perché in fondo è lo stesso incontro di cui Troisi si fa tramite da una vita intera tra il puro, il fanciullesco, e il sublime.
Dopo aver danzato con la morte per anni, l’aggravarsi delle sue patologie cardiache lo portava via il 4 giugno 1994, poche ore dopo aver terminato quello che rimane ad oggi il suo ultimo, splendido, film. Se ne è andato così, con la stessa beffarda ironia del Woody Allen che parafrasa Bergman nell’ultima inquadratura del suo Amore e Guerra: cosa ho imparato della vita, dell’amore? Vogliamo immaginarlo sospeso sulla sua leggera napoletanità, come un pulcinella senza maschera che percorre, su una tarantella, i suoi ultimi passi.