Al netto di altre considerazioni, quando l’anno 2020 sarà finalmente un ricordo lontano, è probabile che per rappresentare il cinema saranno evocati due titoli, tanto emblematici quanto decisamente controversi: Tenet di Christopher Nolan e Mank di David Fincher.
Intanto, per qualche ragione misteriosa, nel secondo decennio degli anni 2000 la critica cinematografica tra web e social sembra essersi ridotta a una sola domanda: “È questo forse un capolavoro”? E così il disgraziato, abusato termine Masterpiece, che forse all’estero vivrà ancora di vita propria, in Italia si è affermato come tabù.
Quanto a Mank di David Fincher, avrete certamente già letto tutto e il contrario di tutto. Cos’altro potremmo dirvi? Se costui fosse o no un capolavoro, non è dato sapere. L’unico dato certo è che il cineasta David Fincher abbia dedicato un film a Herman J. Mankiewicz, detto Mank.
Suddetto film è stato in realtà scritto dal padre di David, Jack Fincher, che fatalmente non ha mai trovato credito per questo script. Fincher figlio, all’apice della carriera, decide allora di pagare il suo omaggio a questa sceneggiatura che, fin dalla struttura, conserva l’aura del Classico.
La Golden Age, la Hollywood dell’Età dell’Oro sarà allora rappresentata attraverso gli occhi di Mank, interpretato da Gary Oldman: sceneggiatore premio Oscar nel 1942 per Quarto Potere (Citizen Kane).
Nel ’42 l’Oscar è diviso mal volentieri, ma comunque diviso tra Mank e l’enfant prodige che è il regista, nonché il protagonista del film nella parte di Kane: Orson Welles. Ma che Mank fosse l’unico vero autore di quella sceneggiatura, è una tesi già ampiamente smontata dalla Storia.
Tanto per citare l’esempio più celebre, la tesi era al centro di un articolo pubblicato nel 1971 dal New Yorker, Raising Kane, firmato Pauline Kael. Lo scopo di David Fincher allora è forse creare un cortocircuito, un film che, sequenza dopo sequenza, conserva implicazioni ben più profonde della superficie.
Leggeremo tra le righe di un solo monologo, quello della “scena madre”, il monologo del Don Chisciotte. Mank di David Fincher, come da tradizione, arriva a questo monologo esplosivo seguendo una precisa disposizione di set-up e pay-off.
Ma quando le parole esplodono, aprono in realtà gli scenari più diversi. Forse il Don Chisciotte che parla è l’hidalgo di Cervantes, forse rappresenta il magnate Heirst, il protagonista che si nasconde sotto le mentite spoglie di Kane.
Forse, anzi quasi certamente è lo stesso Mank, già che è lui stesso a interpretare la parte, ubriaco e perso nella sua guerra contro i Giganti di Los Angeles. Ma dobbiamo ricordare come il Don Chisciotte resti comunque il grande capolavoro incompiuto di un autore, che fatalmente è proprio Orson Welles.
Quelle porzioni di pellicola 16 millimetri impresse dal 1955 al 1973 verranno affidate dalla terza moglie di Welles a Jesus Franco, autore di oltre 160 pellicole, che a sua volta ricorderete forse per Il conte Dracula (1969) con Chripstopher Lee e Vampyros Lesbos (1972).
Nel 1992 Jess Franco presenterà alla Mostra del Cinema di Venezia la sua controversa versione del Quixote di Orson Welles, uno di quei film che gli hanno dannato vita e carriera, che forse il cineasta avrà sognato fino all’ultimo respiro, sopraggiunto il 10 Ottobre 1985 a Los Angeles.
Quanto a Mank, morirà nel 1955 e dopo l’Oscar del ’42 per Quarto Potere non scriverà più nessun altro film. Cosa dire allora di Mank di David Fincher? Il film che trovate su Netflix conserva un dono che sembrava perduto.
E questo dono è il cortocircuito, che sa innescare il dibattito, un confronto che ci riporta finalmente a parlare della Storia del Cinema e dei suoi protagonisti, compresi quelli misteriosamente scivolati in una coltre d’ombra, come Quixote, Sancho Panza e Dulcinea.
Per quanto la visione in sala sia stata inevitabilmente mortificata dalla chiusura dei cinema, il 2020 ci ha regalato la possibilità di poter ammirare dal vivo capolavori come Dogtooth (2009) e Alps (2011), pellicole che hanno lanciato la carriera di Yorgos Lanthimos, regista greco ormai affermato a livello internazionale.
Dopo l’ottimo esordio segnato da Kinetta, il cineasta sigla la sua prima collaborazione con Efthymis Filippou, sceneggiatore divenuto poi un perno fonamentale per ognuna delle seguenti opere firmate da Lanthimos.
Κυνόδοντασ (Kynotontas), distribuito con il titolo internazionale di Dogtooth, é una perversa favola nera che tanto deve al concetto orwelliano di Neolingua e alla distinzione fra apollineo e dionisiaco formalizzata da Friedrich Neitzsche nella sua Nascita della tragedia.
Nel claustrofobico e asettico ambiente familiare disegnato dal regista, a far da mattatore sulla scena é la figura di un padre padrone, dominus indiscusso della casa da lui governata in ogni aspetto, che decide di crescere i propri figli all’interno di una surreale campana di vetro, assemblata grazie ad un’indiscriminata manipolazione della realtà difatti sconosciuta alla propria progenie.
Il secondo film di Yorgos Lanthimos é un racconto distopico che parla del nucleo associativo della famiglia, attraverso tematiche quali la pulsione sessuale, la mortificazione di ogni forma di curiosità e dissenso, la violenza come rimedio contro il soffocante vincolo familiare sperimentato quotidianamente. Per approfondire, qui la nostra analisi.
Nella nostra speciale classifica dei Migliori Film del 2020 non può che meritare una menzione d’onore Alps, terzo lungometraggio del regista greco classe ’73. Sotto un certo punto di vista, il film candidato all’Oscar come miglior pellicola straniera contiene una dose d’oscurità maggiore rispetto al precedente Dogtooth.
Il tema portante del film è, infatti, il processo di non accettazione della morte, al quale Lanthimos decide di ovviare attraverso un espediente metacinematografico, designando come protagonista della vicenda una troupe d’attori appositamente ingaggiati da persone comuni per impersonare i cari scomparsi.
Ancora una volta Lanthimos mette in scena una vicenda grottesca al punto da apparire inevitabilmente distopica, una storia che parla della società dello spettacolo, muovendosi fra i contorni di una fredda realtà, in cui tutti sono rimpiazzabili. Il coinvolgimento emotivo derivante da questo perverso processo, tuttavia, farà sì che l’ordine precostituito deflagri, come in ogni buon film di Yorgos che si rispetti.
Come anticipato, l’inserimento nella classifica dei Migliori Film del 2020 di queste opere risponde a una necessità ben specifica. Vogliamo infatti rimarcare ancora una volta la centralità della sala cinematografica come vero luogo dell’anima di ogni cinefilo.
4) Memorie di un assassino di Bong Joon-ho
La notte del 9 febbraio un giovane cineasta Sud Coreano scriveva la storia, entrando con onori e fasti nell’Olimpo di Hollywood. Parasite ha rappresentato per Bong Joon-ho la consacrazione mondiale, il compimento di un graduale percorso di avvicinamento al grande pubblico occidentale.
Seduto nella platea del Dolby Theatre vi è una persona che ha da sempre amato i suoi film, e al quale infatti Bong Joon ha tributato il proprio ringraziamento nel discorso di accettazione dell’Oscar. Quentin Tarantino ha da sempre indicato Memorie di un assassino come uno dei suoi film preferiti.
È lui, cinefilo tra i cinefili, il capofila di una squadra di appassionati nient’affatto nuova al cinema del regista di Snowpiercer, The Host e Madre. Con Memorie di un assassino Bong Joon si impose come uno dei più promettenti cineasti della Corea del Sud contemporanea.
Un regista all’epoca poco più che trent’enne che, al suo secondo lungometraggio, dimostrò una tale padronanza delle forme del linguaggio cinematografico da non ptersi non candidarsi, insieme a Park Chan-wook, ad essere il nuovo volto del cinema coreano. Sorprendono il controllo totale sulla scrittura, che trasforma il poliziesco in un vortice di follia che si fa analisi psico-sociale.
Si intravede già una concezione plastica dell’inquadratura e della sua potenza drammaturgica, diventata col tempo una vera e propria firma di Bong Joon, come dimostra il suo recente capolavoro, orientato ad un razionalissimo geometrismo. Ma ciò che ha fatto la fortuna del film presso i cinefili di ogni parte del mondo è la capacità, comune a tanto cinema coreano, di essere trasversale rispetto alle cinematografie di provenienza.
Il cinema di Bong Joon parla allo spettatore occidentale senza alcuno straniamento. E se, ancora, Parasite è il trionfo del cinema universale di Bong Joon, Memorie di un assassino resta uno dei film più importanti della prima decade del secolo. Un gioiello che solo quest’anno ha avuto una distribuzione ufficiale nelle sale italiane e che per questo merita di stare a pieno titolo nella nostra classifica dei Migliori Film del 2020.