Il consueto appuntamento annuale, tiriamo le somme di questo strambo anno televisivo: ecco le migliori serie tv e miniserie del 2020 secondo la Scimmia
La miniserie è tra le trasposizioni kingiane più amate dal Re del brivido. Un lavoro di notevole successo capace di conquistare sia il piccolo schermo che l’arte madre: la letteratura.
Garante della qualità del prodotto è la sempiterna HBO, che riesce a confezionare una versione degna del romanzo (escluso un grave errore, che potrete scoprire nella nostra recensione del romanzo) con un ritmo compassato e un crescendo che si serve maggiormente dell’aspetto psicologico degli avvenimenti piuttosto che sulla pura e dura azione.
Una miniserie che vi sorprenderà a metà del percorso con una entrata teatrale del soprannaturale. Ma siamo sicuri che non faccia più paura la grigia e apparentemente tranquilla vita di provincia?
Di The Outsider ve ne abbiamo parlato approfonditamente, quindi per saperne di più:
Diventato un vero e proprio fenomeno nel corso delle ultime settimane, La Regina degli Scacchi è uno di quegli esempi di serie capaci di prendere un argomento non proprio à la page e renderlo popolare, nell’accezione più lusinghiera del termine.
La storia è quella di Beth Harmon che, dopo essere rimasta orfana, scopre una passione sconfinata per gli scacchi quando è ancora in orfanotrofio, diventando ben presto quella che si può definire un enfant prodige.
In un mondo ancora profondamente maschile (e maschilista) come quello degli scacchi, Beth si rimbocca le maniche per sconfiggere i suoi avversari e diventare così un Maestro nell’arte degli scacchi.
La serie ha un ottimo ritmo, che alterna momenti più intimi a quelli legati alle competizioni: ma è indubbio che il vero centro emotivo sia rappresentato dalla protagonista, interpretata magistralmente da Anya Taylor-Joy.
Altra miniserie che ha lasciato il segno nel 2020 è senza dubbio Unorthodox che, con appena quattro episodi, è riuscita a ritagliarsi un spazio tra i titoli che vale assolutamente la pena recuperare.
Tratta dall’autobiografia di Deborah Feldman, Unorthodox segue le vicende di Ester Shapiro, una ragazza di fede ortodossa chassidica, che decide di abbandonare la sua comunità e raggiungere la madre che vive in Germania.
Unorthodox è una storia che parla di libertà e di riscoperta: una miniserie che si concentra molto sul ruolo della donna in piccole comunità rette da regole fisse e che, agli occhi di molti, appaiono senza senso.
Sicuramente la visione vale anche solo per l’interpretazione della protagonista, Shira Haas, che riempie lo schermo e risveglia apparentemente senza sforzo l’empatia dello spettatore.
Little Fires Everywhere – Dove vederla: Amazon Prime Video
A cura di Erika Pomella
Potendo contare su un cast guidato da Kerry Washington e da Reese Whiterspoon, non è una sorpresa che Little Fires Everywhere rientri tra le miniserie più interessanti del 2020.
Tratto dal romanzo omonimo, Tanti Piccoli Fuochi, questo il titolo originale, racconta di una piccola cittadina all’apparenza perfetta che in realtà è il teatro di falsità e incoerenza.
Un mondo in cui si agitano segreti, rapimenti e scelte tanto discutibili quanto comprensibili. Ma è senza dubbio al reparto attoriale che va il plauso generale: sono le interpretazioni a fare di Little Fires Everywhere un prodotto interessante.
Quando ripenseremo al 2020 televisivo sicuramente una delle prime immagini che ci affioreranno in testa saranno legate a The Last Dance, vero e proprio fenomeno mediatico dell’anno. La docuserie su Michael Jordan e i Bulls ha coinvolto tutti, anche quelli che poco prima non sapevano davvero cosa fosse la NBA. Perché? Semplice: la storia umana che si cela dietro la scalata dei tori di Chicago è degna dei migliori romanzi, dei più grandi film.
Se proprio dovessimo porre una corona sulla testa del re della Tv 2020, non avremmo dubbi, The Last Dance è il vero sovrano di questa annata. Proprio come il suo protagonista, re indiscusso del proprio sport, icona pop senza tempo.
Se hai amato Mank amerai Hollywood, o se hai amato Hollywood amerai Mank. Insomma, per capirci: un viaggio indietro nel tempo nella Hollywood d’oro è il sogno di ogni cinefilo e con Ryan Murphy non solo quel sogno diventa ad occhi aperti ma questi restano spalancati e incollati allo schermo. Hollywood è una miniserie Netflix così affascinante che non si potrà che divorare tutte le puntate prima di rendersene conto. Per un appassionato, o se si vuole approfondire la storia, della Hollywood d’oro vedere i protagonisti di quel periodo prendere vita sarà estremamente divertente ed emozionante. E così eccoli sullo schermo Rock Hudson, Anna May Wong, Vivien Leigh, George Cuckor e tutta la compagnia che ha reso grande il cinema e lo star system.
Di certo, però, quello della Hollywood d’oro non è un periodo privo di contraddizioni e controversie, e tutto questo è evidente sin dalla prima puntata. Quello di Ryan Murphy non è, solo, un inno d’amore per il cinema e la Hollywood degli anni ‘50 ma anche una denuncia al “politicamente corretto” che ha segnato (o corrotto) quegli anni così significativi. E anche un viaggio filmico del “se fosse”, in cui si cerca di infondere una prospettiva moderna su dinamiche socio-economiche e culturali legate ad un retaggio di genere e razziale, mai del tutto superato. Le intenzioni di Murphy sono evidenti: smascherare l’ipocrisia e la corruzione morale di una di una società così contraddittoria come quella dell’America degli anni ’50.
Hollywood quindi concentra il proprio sguardo sulle dinamiche, di rapporto ed economiche, che orchestrano i processi produttivi dell’industria cinematografica. Murphy supera queste dinamiche corrotte e contraddittorie e lo fa nel modo più (o meno) consono e divertente, investendo il tutto di una patina hollywoodiana. Si, perché alla fine tutti gli sforzi dei personaggi vengono ricompensati e, riuscendo a svincolarsi da determinati stereotipi, riescono a realizzare i propri sogni di fama e gloria all’insegna del più classico dei lieto fine. Quello di Murphy è un ribaltamento storico, al di là dell’erotismo che vi si cela, nel tradizionale stile hollywoodiano impregnato di emotività e sentimentalismo, in cui il bene trionfa sempre. Insomma, a Hollywood il fine giustifica sempre i mezzi.
The English Game è una miniserie creata da Julian Fellowes (Downtown Abbey), insieme a Tony Charles ed Oliver Cotton. La serie, prima ad essere prodotta da Fellowes per Netflix, racconta la storia dell’origine del professionismo nel calcio inglese nella seconda metà dell’ottocento.
Quello del calcio (football, pardon) è però un pretesto per introdurci in una storia ben più ampia, concentrata sui due poli rappresentati dai due fuoriclasse Arthur Kinnaird e Fergus Suter. Due mondi diversi, due modi di vivere e d’intendere il calcio agli opposti, almeno inizialmente. Nobile e contrario al professionismo il primo, operaio e favorevole il secondo, in quella che sembra davvero una distanza incolmabile fra i due. Distanza che verrà però colmata sul campo da gioco, dove le differenze verranno annullate e a parlare saranno i piedi dei due campioni.
A ben vedere sono quasi più i momenti di vita quotidiana, fra la povertà degli operai e i problemi della nobiltà a prendere il sopravvento, specialmente nelle puntante centrali. Quella di Fellowes è un’opera che spazia ampiamente nel ritrarre un preciso ambiente storico inglese. Un elemento che se da un lato dona una profondità sicuramente interessante alla storia, dall’altro rischia a tratti di far perdere alla serie il suo focus centrale, ovvero il mondo del calcio. Ammesso lo sia mai stato.
The English Game rischia così di deludere chi cerca una dichiarazione d’amore verso il football nuda e cruda, ma saprà attrarre chi cerca una storia più strutturata in pieno stile british, così come Fellowes ci ha abituati con le produzioni precedenti. Un’opera quindi ben più che godibile che ci sentiamo di consigliare anche a chi mastica poco o nulla di calcio.
Normal People – Dove vederla: Amazon Prime Video/Starzplay
A cura di Erika Pomella
Tratto dallo splendido romanzo omonimo di Sally Rooney, Normal People è una miniserie britannica che si concentra molto sulla precarietà del nostro tempo e della nostra società.
Al centro della narrazione c’è la relazione tra Marianne e Connell, che si conoscono ai tempi della scuola e si inseguono per il college, con le loro personalità che cozzano l’una con l’altra e la società che si mette nel mezzo.
Attuale nel suo descrivere un’età adulta piena di insicurezze e priva di qualsiasi punto di riferimento, Normal People è struggente e pieno di un silenzioso pathos che non lascerà delusi i suoi spettatori.
Acclamata della critica e approdata in Italia su Tim Vision, Mrs. America è una serie che, come forse si può intuire dal titolo, punta a raccontare quell’America che sotto lo smalto dell’american dream nasconde un’anima ancora profondamente razzista e sessista, come dimostrato dall’ultima presidenza Trump.
La storia (vera) è quella di Phyllis Schlafly, una feroce conservatrice che si batté contro l’Equal Rights Amendment, l’ERA, che mirava a sancire l’uguaglianza tra uomini e donne. Attraverso l’uso di una campagna sempre molto aggressiva, che si basava anche sulle fake news, Phillys divenne un vero e proprio fulcro del movimento conservatore, contro cui si scontrarono le femministe degli anni ’70.
A interpretare Phyllis c’è una sempre straordinaria Cate Blanchett, che riesce a catturare lo sguardo dello spettatore. Già la sua semplice interpretazione vale il tempo dei nove episodi che compongono questa miniserie. Nel cast ci sono anche Elizabeth Banks, Sarah Paulson e la meravigliosa Uzo Adube di Orange is The New Black.
C’è da dire, però, che Mrs. America non è un prodotto per tutti: se la politica e lo scontro ideologico non è ciò che cercate in un prodotto di intrattenimento, Mrs. America rischia di affogarvi in una lunga serie di spiegoni, dettagli e informazioni che vi potrebbero condurre alla noia. Se invece vi lasciate irretire dal ritratto degli Stati Uniti d’America degli anni ’70 — così pericolosamente simili a quelli di oggi — Mrs. America vi rapirà.