Tra i film diretti da Tim Burton, è indubbio che Edward Mani di Forbicerappresenti forse quello più amato dell’intera filmografia del regista di Burbank.
La storia è quella di un simil-androide che, dopo aver vissuto in completo isolamento in un castello semi-diroccato, viene portato in città da una gentile rappresentante dell’Avon.
Edward mani di forbice racconta dell’incontro tra un personaggio stra-ordinario con una società bigotta, tutta uguale a se stessa, che non ha nessuna intenzione a migliorarsi e crescere.
Non è un mistero che nella figura di Edward, Tim Burton abbia sempre riconosciuto se stesso. Come il suo protagonista, il regista era una sorta di freak nel quartiere in cui è cresciuto, il ragazzo strano che si vestiva di nero e che faceva disegni inquietanti.
Non a caso, inoltre, il quartiere in cui arriva l’Edward interpretato da Johnny Depp– che anni dopo sarebbe tornato a interpretare un personaggio simile ma più oscuro con Sweeney Todd – è stato costruito proprio sul modello di quello in cui Burton ha passato l’adolescenza.
Con Edward Mani di Forbice il regista ha dunque potuto raccontare la sua visione del mondo e, allo stesso tempo, offrire allo spettatore un prodotto d’alto livello che riflettesse su due temi molto importanti: l’arte e la diversità.
Spesso Tim Burton ha parlato del cinema – e dell’arte in generale – come una forma meno costosa di terapia. Il suo protagonista, dunque, cerca di esprimersi attraverso l’arte. Ed è con l’arte che cerca di essere accettato da un mondo a cui pensa di voler appartenere.
Ma è proprio qui che si cela il vero messaggio di Tim Burton: Edward mani di forbice non parla di come l’arte possa essere un veicolo per farsi accettare. Il regista sembra dire che non bisogna interessarsi a coloro che non sono in grado di capire l’arte che creiamo.
A un certo punto, nel film, il personaggio di Edward risponde con la famosa battuta Noi non siamo pecore, quando la vicina religiosa lo addita come una creatura infernale.
Senza saperlo, Edward sta rispondendo solo per se stesso, senza rendersi conto che in quella frase non possono rientrare i suoi vicini, nemmeno coloro che lo hanno tirato fuori dalla sua solitudine.
Con quel non siamo pecore, il protagonista sta affermando la sua unicità, il suo non far parte di un pascolo o di un branco di esseri tutti uguali. Ma è proprio la stra-ordinarietà di Edward a renderlo quello che è e a portare, poi, la gente “normale” a rivoltarsi contro di lui.
Ed ecco dove sta il vero messaggio di Tim Burton e del suo Edward Mani di Forbice: nel non dover scendere a compromessi, nell’accettare di essere considerato un mostro da chi non sa vedere al di là del proprio naso.
Edward rientra dunque a pieno titolo nella lunga galleria di personaggi con cui Tim Burton ha costellato la sua filmografia, e che hanno il tratto comune di essere dei borderline, delle creature che trascendono la quotidianità.
Ed è sulla figura del mostro che il regista di Burbank ha costruito la sua carriera, in qualche modo ribaltando una prospettiva da genere horror, in cui il diverso era sempre il male, la personificazioni di valori sbagliati.
Una poetica, questa, che vede un proprio esempio nel finale di Edward Mani di Forbice. La stra-ordinarietà del personaggio pone gli altri comprimari davanti i loro limiti.
Il mostro smette dunque di essere qualcosa da combattere per la sua crudeltà: ma diventa un’incognita da allontanare perché fa emergere l’oscurità e la bassezza dell’uomo comune, di colui che si è in qualche modo abbandonato all’american way of life.
Alla fine di Edward Mani di Forbice vediamo gli abitanti del quartiere dai colori pastello marciare verso il castello, in una rivisitazione moderna delle folle inferocite che, fiaccole in mano, inseguono il mostro/il diverso per cacciarlo.
Si tratta di un chiaro rimando al Frankenstein di Mary Shelley con la creatura del dottor Frankenstein inseguita dal fuoco e dalla rabbia di una folla che vuole eliminare l’elemento esterno, inaspettato.
Una scena simile a quella che si vede anche verso il finale de La Bella e la Bestia, il lungometraggio Disney in cui Gaston spinge gli abitanti del villaggio ad andare a distruggere la bestia, il mostro che ha la sola colpa di non essere uguale agli altri.
Con Edward Mani di Forbice succede la stessa cosa: dopo che i vicini hanno in qualche modo saziato la propria curiosità e osservato il freak per potersi rassicurare sulla propria normalità, Edward diventa qualcosa di oscuro e minaccioso. Qualcuno a cui dare la caccia.
Tim Burton dunque riporta il suo protagonista all’interno di un castello, lontano da quella normalità che all’inizio sembrava un obiettivo da raggiungere e che sul finale, invece, diventa una condanna da evitare.
Tim Burton invita a credere e a resistere a chi ci vuole diversi, a chi ci vuole inglobare nella sua normalità. Ecco perché alla fine accetta di rimanere da solo, nonostante Edward sia perdutamente innamorato di Kim (qui potete leggere la storia d’amore tra Johnny Depp e Winona Ryder).
Il finale di Edward mani di Forbice rappresenta dunque il perfetto manifesto della poetica di Tim Burton, che sceglie di stare sempre dalla parte dei diversi, degli esclusi, di coloro che non rispondono a canoni sterili dettati dalla società.
Per altre news e aggiornamenti continuate a seguirci su LaScimmiaPensa.com