Cyr, il nuovo album degli Smashing Pumpkins, è uscito oggi 27 novembre
L’attesa per il nuovo album degli Smashing Pumpkins, riuniti per tre quarti nella formazione originale, non era esattamente febbrile. Questo dato che l’ultimo album della band, Shiny and Oh So Bright, Vol. 1 / LP: No Past. No Future. No Sun. risale a un paio di anni fa e quindi i quattro non si sono fatti mancare per molto.
Normalmente, la notizia di un nuovo disco della storica band, specie con James Iha e Jimmy Chamberlin di nuovo in formazione, sarebbe una buona notizia. E lo è, se non che questo nuovo disco non ha niente di differente da tutto ciò che Billy Corgan ha fatto negli ultimi vent’anni.
Qui siamo al livello di Paul McCartney con i Wings. Lo prova la coerenza stilistica mantenuta nei confronti delle passate produzioni. Se pur qui lo stile devii verso toni new wave/darkwave inizio anni ’80, con synth opprimenti e atmosfere malinconiche stile primi Tears for Fears, il risultato non cambia di molto.
Almeno quindici canzoni su venti sono delle nenie caratterizzate da un art rock tanto raffinato quanto poco ispirato, nelle quali Corgan esplora come al solito demoni e paure. Ma a farne le spese è l’incisività tipica del gruppo, che emerge solo sporadicamente e quasi per sbaglio.
Billy Corgan non è Nick Cave, ma vorrebbe esserlo
Le canzoni riuscite sono Wyttch, Cyr, la title track, Adrennalynne, Tiger, Tiger e forse Purple Blood. Queste sono le tracce che fanno davvero ricordare chi erano gli Smashing Pumpkins e portano a cercare di capire quando hanno smesso di esserlo. Le altre quindici canzoni?
Un art rock nebbioso, nel quale la base musicale sembra fungere solo da sostegno per i testi impegnativi e ambiziosi di Corgan, che del resto sovrasta tutto e di continuo con la sua voce onnipresente. Unica nota positiva il contributo eccellente delle due coriste, Katie Cole e Sierra Swan, che colorano un disco altrimenti in scala di grigi.
Anche l’eccesso di tracce inserite, non inusuale per i mastodontici lavori di Corgan, gioca a favore della sua ambizione, certo, ma contro la godibilità dell’insieme. Il cantante sembra anche per questo cercare di continuo la riproposizione del classico Mellon Collie and the Infinite Sadness (1995), che di tracce ne aveva ventotto.
Giudizio finale? Positivo se quello che si cerca è un rock stratificato, complesso, sublime. Negativo se si va invece in cerca di uno sprazzo di originalità , che Corgan e i vari musicisti da lui assunti nel corso degli anni non riescono ad esprimere ormai dal 2000, dalla cessazione di attività della formazione originale.
Certo, non fraintendiamoci: la musica qui è di alto livello, non stiamo parlando dell’ultimo gruppo garage rock che fa le prove nel seminterrato dei genitori del cantante. Ma il punto è che lo stile dei Pumpkins, un tempo così promettente e all’avanguardia, sembra essersi cristallizzato ormai da troppi anni.
Nonostante la buona prova del disco precedente, Corgan e soci non sembrano proprio trovare il modo di uscire dal solipsismo di una validazione artistica auto-assegnata: non gli interessa piacere. Il che sarebbe un bene, se non fosse che nel frattempo sono passati vent’anni e il gruppo non ha mosso praticamente un solo passo avanti.