Il nuovo disco degli AC/DC non è nient’altro che questo: un nuovo disco degli AC/DC
Fin dall’inizio del primo riff di chitarra della prima canzone, si riconoscono subito: gli AC/DC, leggende statuarie del rock più tradizionale e classico, sono tornati. E l’hanno fatto con un disco, Power Up, che non aggiunge e non toglie niente ad una lunga carriera con la quale, da decadi, hanno già detto tutto.
Attivi fin dalla metà degli anni ’70, gli AC/DC hanno sempre giocato un ruolo chiave non tanto nell’emancipazione del rock and roll come genere popolare portante della seconda metà del ‘900, quanto nella sua istituzionalizzazione. In alte parole: il loro è “il rock” per eccellenza, adatto a tutti, mai troppo estremo o troppo mellifluo.
I Led Zeppelin? Troppo complicati. I Pink Floyd? Troppo cervellotici. I Black Sabbath? Troppo cupi. Ma gli AC/DC piacciono davvero a chiunque e non è un caso. Le loro canzoni, sempre rispondenti ad uno stile hard/blues fatto di riff di chitarra facili e che chiunque può imparare, sono fatte per il grande pubblico.
Il rock classico nel 2020
Questo è tanto vero oggi quanto lo era nel 1976, nel 1980 (anno di uscita di Back in Black) o nel 2016, quando gli AC/DC hanno pubblicato il loro disco precedente, Rock or Bust. L’ultimo, peraltro, assieme a Malcolm Young, il fratello maggiore dello storico chitarrista Angus, deceduto nel 2017.
La band, con una coerenza spaventosa (o con una inventiva immensamente scarna, a seconda dei punti di vista) ripropone nel 2020 quello che ha già proposto nelle altre date di cui sopra: rock, rock e ancora rock. I riff sono piacevoli, i ritmi ci sono, gli stridii di Brian Johnson sono al posto giusto.
In Power Up, il loro nuovo disco uscito oggi, c’è tutto quello che serve per accontentare il fan medio della band. Il fruitore, cioè, di un rock festaiolo, disimpegnato, da stadio, fatto di cori, ritornelli potenti e ritmi al testosterone. A voi decidere se sia un bene o un male: questo è quello che gli AC/DC fanno.
Un’eredità in decadenza, o la salvezza della musica?
Non sbagliamo se diciamo che chi oggi è un fan degli AC/DC (e solo degli AC/DC, senza ascoltare magari anche Wolfmother o Royal Blood) ama le chitarre e le atmosfere pesanti di un rock inossidabile e intransigente. Legittimo. Se non che, nel 2020, questo voglia dire praticamente vivere in una bolla.
Intendiamoci: il rock è morto? No. Anzi, gli artisti dell’ultima generazione lo stanno riscoprendo, con particolare riguardo agli anni ’90. Parliamo di Beabadoobee, Jay Som, Soccer Mommy, Yungblud, Snail Mail, Ruby Fields. Direte: chi? Appunto. Il problema con gli AC/DC è un po’ questo: credere che il rock sia nato, e debba morire, con loro.
Indirettamente, le musiche contenute in un album come Power Up portano il seguace fedele di questi suoni a cementificare nel proprio cervello una concezione del rock indisponente ed esclusivista. Un gate-keeping sui gusti che non accetta nulla di “giovane”, o nulla di “contaminato”.
Il punto è che sono passati i tempi in cui il rock era la musica “ribelle”, la musica diversa, degli emarginati e degli incompresi. Appigliarsi all’idea di un ritorno delle chitarre come strumento (musicale) di liberazione dei popoli, ma rifiutarsi al contempo di ascoltare i nuovi artisti che le usano: questa è cecità.
Tutto questo per dire che Power Up, seppur un ottimo disco se collocato, diciamo, nel 1978 e nel genere hard rock, oggi non suona altro che come una eterna eco di qualcosa già fatto, già visto, già sentito. Non è colpa degli AC/DC, beninteso: hanno sempre fatto questo e, finché potranno, sempre faranno questo.
Il messaggio è per chi aspettava questa uscita come la più importante, la più significativa e la più imperdibile di questo 2020. Se è così che volete ascoltare questo disco, nessuna recensione può farvi cambiare idea. Gli AC/DC fanno quello che facevano cinquanta anni fa: non è cambiato nulla. Sempre tutto bello, ma chiedetevi: vi basta questo?