Perché L’Esorcista ci fa ancora Paura? – Analisi di un capolavoro
L'Esorcista è uno dei film horror più famosi, discussi ed importanti di sempre, ma perché tutto questo clamore? Per quale motivo ci fa ancora così paura? Queste ed altre domande troveranno risposta in questa analisi.
L’Esorcista di William Friedkin nasce e si concretizza in un periodo storico turbolento per gli Stati Uniti d’America. La Guerra del Vietnam era ancora in corso, l’inflazione minacciava sempre di più la supremazia della nazione e l’amministrazione di Nixon peggiorava le cose.
Erano anni di grande instabilità socio-economica ed è in questo contesto che il film si formula, dando voce, forse anche inconsapevolmente, ai turbamenti di un’epoca. All’interno del film non viene messo in discussione solo l’equilibrio della tipica famiglia borghese, benestante e moderna, ma anche quello che contraddistingue alcuni personaggi ed i luoghi in cui questi si muovono.
Ospedali pschiatrici, periferie cittadine, l’Iraq, luoghi di culto; tutti questi spazi sembrano ricondurre o essere contaminati da un certo tipo di disordine o precarietà. Niente appare concreto e solido nella propria essenza, ma scosso da una minaccia invisibile.
Quel che si può percepire durante la visione è una continua negazione di quei codici comportamentali sui cui solitamente si fondano alcune delle figure che la pellicola predispone.
Emblematica è la totale mancanza di fede di padre Karras o della sua comunità parrocchiale, come risultano anche piuttosto evidenti le inadempienze del padre di Regan nei confronti di sua figlia.
Sono personaggi che tradiscono se stessi, o meglio la loro ontologia, almeno per ciò che concerne le concezioni più consolidate nella nostra società. Quel che in parte ha contribuito al successo de L’Esorcista è stato proprio l’utilizzo di queste molteplici figure fragili e vacillanti che, distaccandosi dai comportamenti più classici di riferimento, sono state in grado di generare un sentimento di vulnerabilità, o meglio di incertezza, nello spettatore.
Una percezione su cui poi il regista ha costruito una minaccia invisibile, se non per le sue più coreografate manifestazioni, capace di deturpare ed alterare l’intimità e la sicurezza del nido famigliare americano.
Ciò che viene minacciata è quindi l’integrità in genere, ma nello specifico quella di alcuni punti di riferimento, tanto ancestrali quanto consolidati nell’immaginario collettivo, che rendono la realtà filmica più esposta al pericolo.
L’autore attraverso l’ausilio di molteplici figure arcaiche e moderne, che si appellano all’inconscio e alla cultura del pubblico occidentale, da vita ad un’atmosfera ostile a quest’ultimo, conferendo ancor più consistenza ad un male in grado di dissimulare se stesso.
Attraverso immagini evocative ed emblematiche,William Friedkin demolisce le certezze dello spettatore, instaurando un regime di terrore avvertibile ancor prima della sua concretizzazione. Il demone esiste ancor prima della sua più chiara ed inequivocabile manifestazione.
Ciò che viene raccontato e mostrato in precedenza serve per predisporre una vittima sacrificale, innocente e pura, per punire la borghesia americana, ma anche per rendere più verosimile il contesto in cui essa è inserita.
Numerosi sono gli archetipi visivi che ne L’Esorcista vanno a smuovere le suggestioni più inconsce nello spettatore; una finestra costantemente aperta, un vento onnipresente, due cani che si azzuffano in presenza di un pericolo non percepibile ai sensi, visioni ed ammonimenti.
Immagini tanto antiche, quanto ben consolidate e metabolizzate dall’uomo, da riuscire a smuore le sue più ataviche paure/convinzioni. Tutto ciò, unito al lavoro effettuato sugli spazi, che forse risulta ancor più imponente rispetto al resto, non fa altro che conferire più spessore alla figura di Pazuzu, consegnando allo spettatore un orrore tanto primordiale quanto credibile.
Il lavoro fatto da William Friedkin ne L’Esorcista si sviluppa molto sull’ontologia degli ambienti scenici, ergo sul loro significato più intrinseco, ma anche su come quest’ultimi vengono percepiti dallo spettatore.
Emblematico è il preambolo de L’Esorcista, che sembra appartenere ad un tempo e ad una dimensione della narrazione differente dalle altre, va costruirsi attraverso molteplici immagini identificative e descrittive, ritraendo usi e costumi del luogo, donando quindi più credibilità al male che poi verrà portato alla luce.
La macchina da presa sceglie infatti di soffermarsi sui volti degli abitanti, sui mercati popolari, sui mestieranti e sui luoghi di culto per restituire al pubblico un’immagine il più variegata ed autentica possibile.
Si delinea quindi una minaccia conscia e consapevole di se stessa, costruita attraverso idoli tanto antichi quanto metabolizzati dalla società del luogo, che trascendono i secoli con immutata forza e giungono da noi integri.
Attraverso la sequenza dell’Iraq non si va solo a sublimare il concetto di invasione extra-corporea. Attraverso un segmento filmico che esercita degli effetti su di un altro a lui estraneo, si inizia a dare anche importanza a quel senso di predeterminazione che poi caratterizzerà alcuni personaggi.
Non è un caso infatti che padre Merrin, Max von Sydow, in questo momento del racconto vada incontro, attraverso lunghe camminate in anguste vie/corridoi, a quel sarà poi il suo destino: lo scontro con il demone che lui stesso ha riportato alla luce.
William Friedkin quindi, oltre ad essere un bravo “topografo”, dimostra anche di avere una consapevolezza del movimento all’interno degli spazi, non lasciando mai nulla al caso.
Emblematica, più avanti nel racconto, è l’immagine di padre Merrin intento a salire su di un colle che, appoggiandosi sull’iconografia cristiana, associa a quella direzione ascensionale una valenza specifica: la via crucis.
Un moto che poi il regista riprenderà in altre sequenze elaborate all’interno dell’abitazione dei McNeil per rafforzare ancor di più il concetto di calvario a cui i due preti son sottoposti.
Ed è grazie a suo questo modus operandi che il regista riesce a rendere la possessione demoniaca all’interno di quella villa di Georgetown così efficace. La casa, spazio/palcoscenico principe del film, prima di essere deturpata nella sua integrità, viene descritta geograficamente con molta attenzione da William Friedkin, mostrando allo spettatore tutte le sue stanze ed i suoi anfratti.
Ne vengono perciò documentate la vita quotidiana e le geometrie, rendendo così quella famigliarità domestica familiare a chi l’osserva. Un preparativo utile per rendere ancora più impattante, almeno al livello psicologico, quella metamorfosi, fatta di luci alogene ed atmosfere siderali, a cui andrà in contro quel micro-cosmo borghese.
Parlando di spazi risulta poi impossibile non menzionare altre sequenze rilevanti in tal senso, almeno per ciò che concerne l’abitazione dei MacNeil, come ad esempio quella del seminterrato (ouija) e della soffitta (topi). Due segmenti narrativi differenti tra loro, ma in grado di completarsi per mezzo del significato intrinseco che possiedono.
L’autore infatti suggerisce attraverso di esse un senso di accerchiamento da parte del male, capace di minacciare i protagonisti sia dal basso che dall’alto, non lasciando margini d’errore.
Ulteriori cose andrebbero dette anche per ciò che concerne il volto di Pazuzu, distaccato totalmente dalla dimensione filmica e relegato in un anti-spazio che ne rafforza l’immagine, e la camera di Regan, luogo sopra-elevato ed a tratti sacro, volto allo scontro più puro tra bene e male.
Se quella raffigurazione del demone ne sottolinea la consistenza divina, in quanto isola la sua figura da qualsivoglia condizione umana, e al tempo stesso ne rimarca l’estraneità, ciò che viene fatto alla stanza della protagonista è più sottile e si costruisce su di un lavoro di sottrazioni.
Se nei primi momenti de L’Esorcista ci viene mostrato un ambiente caldo e solare, colorato, ricolmo di oggetti e legato ad attimi affettivi, in quelli conclusivi la situazione viene radicalmente capovolta.
La camera di Regan infatti viene quindi de-umanizzata e privata di qualsivoglia aspetto fanciullesco, accompagnando il corpo della ragazza in questo processo di deterioramento. Vi è perciò una forte simbiosi tra la carne della bambina e la materia di cui è composto il film, non solo per quel concerne lo spazio, ma anche per cosa da consistenza alle luci e le atmosfere.
La metamorfosi messa in atto trasforma quindi un luogo ordinario e familiare in uno spazio a cui hanno accesso esclusivamente le luci e le ombre. Ed è in questi attimi che William Friedkin diviene un vero pornografo dell’orrore, andando interamente a costruire le situazione sulle credenze più inconsce e radicate nello spettatore occidentale, fornendo risalto a tutti quei codici e dogmi della religione cattolica.
L’esibizionismo del regista in questi momenti esplode, portando l’opera a vivere di attimi contemplativi, a tratti visionari, per ciò che concerne l’effettistica e la messa in scena dei vari rituali. Viene effettuato un vero e proprio stupro visivo per ciò che concerne l’immagine e l’innocenza di Regan.
Una violenza, fisica e psicologica, che fa del suo corpo un terreno di scontro per due forze ancestrali: bene e male. Il tempo della narrazione rallenta, la camera smette di allontanarsi dal luogo dell’esorcismo ed incominciano a susseguirsi dettagli e primi piani, volti a descrivere l’orrore e il dolore presenti nella stanza.
La voglia di indagare/interrogare il male, mostrata in precedenza attraverso innumerevoli esperimenti ed esami medici, abbandona il film per una pura e semplice ostentazione di forza. Quello che prima era invisibile e sfuggiva all’occhio umano, ora è palese e indiscutibile.
La camera da letto di Regan diviene quindi un atto visionario ed epico, volto a dare solennità e maestosità a quello scontro tra assoluti che da sempre destabilizza ed ispira l’uomo.
L’Esorcista è perciò un film fatto di costruzioni e successive de-costruzioni, asciutto e sterile in molte delle sue narrazioni che va raccontare di una minaccia volta ad un’America benestante che può essere contrasta solo da un ristabilimento dell’ordine morale conservatore.
William Friedkin con quest’opera sancisce un punto di non ritorno per il genere, rimescola le carte in tavola e fonda dei nuovi standard qualitativi.
La pellicola quindi, sebbene risulti talvolta fin troppo cruda, riesce ugualmente a mantenere una certa sobrietà e credibilità, portando a conclusione tutto ciò che intraprende in modo appagante e convincente.
Se le sequenze del vomito, della testa e del crocifisso, volte a violentare ancor di più Regan nella sua intimità più profonda, smettono di generare inquietudine dopo l’immediata assimilazione, le altre, come ad esempio quella della lievitazione, riescono invece a smuovere paura anche a visione terminata.
Lo shock emotivo ed etico causato da alcune immagini, per quanto efficace in contesto di per sé dissacrante, può essere associato ad una volontà di stupire lo spettatore a tutti costi.
Una ricerca di spettacolarità che, per quanto spesso riuscita, cade a volte nel più immediato degli orrori. Piccoli difetti a parte, minimi e di poco conto se rapportati al resto, L’Esorcista era e rimane tutt’ora uno dei film horror più riusciti ed importanti di sempre.