Prendiamoci le manate in faccia da un operaio di Caserta e iniziamo a rivedere la nostra idea di rap.
Pochissimo da dire e tantissimo da aspettarsi. Ecco cos’ha tirato fuori Speranza: un album da sentire. Non c’è quasi nulla di cui parlare, senza finire a ripetere che la mafia è brutta e non è vero che a Caserta hanno tutti i fucili e non è vero che in Campania sono tutti criminali e la droga fa male e non si ruba e non c’è nulla di bello nell’andare in carcere e le pistole non ti fanno guadagnare il rispetto e se c’è qualcuno nella tua comitiva che si fa gli spinelli lascialo stare e non uscire più con lui.
Queste sono tutte obiezioni relativamente valide all’affermazione attorno alla quale girerà questo articolo: L’Ultimo A Morire è un capolavoro del rap italiano e uno dei dischi dell’anno. Sono valide solo “relativamente” perché potrebbe avanzarle chi non conosce il meccanismo del rap game e quindi non può avvertire la rottura provocata da questo album. Ma questo disco è troppo importante perché qualcuno lo ascolti senza superare una barriera così fragile che Speranza l’ha sfondata con una testata. E che cazzo di testata.
Da un ghetto all’altro
Ugo Scicolone, che poi diventerà Speranza, nasce nel 1986 in Francia , dove si forma musicalmente prima di trasferirsi a Caserta. Non nasce nel lato buono della Francia: lui stesso in un’intervista ammette di essere tornato in Campania (suo padre è italiano, mentre sua madre è francese) perché non vedeva nessun futuro nel Paese in cui era nato. “Segregato in un rione, in un Bronx”: il Behren 57 dove Ugo si è trovato a crescere è un rigetto urbano di case popolari, niente soldi da mettere da parte a fine mese e poche fedine penali pulite. Come molti banlieue francesi, è il campo di battaglia per una guerra tra poveri di ogni nazionalità e cultura.
Ugo rappa in italiano, francese, napoletano e dialetto gitano, le lingue in cui parlano i protagonisti delle tarantelle che si è visto passare davanti o nelle quali si è trovato. Ha iniziato a rappare proprio in francese, prima di tornare in Italia. Ne ha viste abbastanza e si è tirato indietro, per rielaborare la rabbia dopo i problemi con l’alcool. Era incazzato anche a Caserta, dove ha trovato la forza per tornare a sputare il sangue sul microfono.
Ha iniziato a gridare in napoletano su YouTube con Sparalo! (poi remixato da niente popò di meno che Crookers) e Chiavt a Mammt tra fine 2017 e inizio 2018, anche se all’inizio raccoglieva soprattutto insulti e sembrava un gangster mezzo trash. C’è voluto qualche altro brano, che ha superato tranquillamente il milione di visualizzazioni, e allora il pubblico, masticando tranquillamente i frutti sempre lucidi e rigonfi del rap italiano, si è accorto di essersi spaccato i denti sul nocciolo.
Speranza è politica per definizione, e non c’entra nulla con il Ministro della Salute. In SPALL A SOTT 4 non si prende neanche la briga di censurare il nome di Saviano, come non aveva fatto in Manfredi: e trovate un altro rapper con più di mille ascoltatori mensili che si prenda la briga di citare un personaggio politico vivo e sulla bocca di tutti senza renderlo un esempio di vita da milionario. La critica sociale che anima dall’origine il rap e i rapper si nasconde spesso dietro alle “istituzioni”, ai “partiti”, ai “politici” o a “questi qua”, persone che esistono ma perdono valore senza il loro nome. Diventano un po’ i nemici immaginari o sottintesi che andavano bene quando il rap se lo ascoltavano solo i guaglioni del quartiere e i loro nemici erano sempre gli stessi. Ora che la critica si estende a tutta l’Italia, diventano un po’ ridicoli.
Speranza è politica perché non fa rap per la sua gente, ma dalla sua gente.
Non fa campagna elettorale, non raccatta consensi; quella gente non è neanche “sua”, lui è di quella gente. Quella stessa gente che l’ha preso e l’ha spinto a tornare a rappare quando erano già dieci anni che faceva il muratore. Ed è per questo che la criminalità nei pezzi di Speranza ha un senso che supera l’ostentazione: Ugo non è il primo a trovarsi circondato da vite criminali e non sarà l’ultimo, ci è stato dentro fino al collo e ci è uscito perché non ci ha trovato nessuna strada. La racconta arrabbiato e se la prende anche con Saviano, forse simbolo di una lotta alla mafia forte e costante ma non abbastanza brutale nelle parole.
La strofa di CASERTEXAS, che apre il disco, si spegne con “Due barre di silenzio per le vittime di Gaza”.
Arrogante e internazionale.
L’Ultimo A Morire non lascia indietro nessuno dei fratelli di Ugo: LE FIEF è cantata interamente in francese, e quasi tutti i pezzi hanno qualche barra in francese. RUSSKI PO RUSSKI potreste pomparla tranquillamente ad un rave nella taiga siberiana, con l’accento slavo sbiasciato e leggermente ubriachi. CAMMINANTE (con Rocco Gitano) riesce pure a togliere un po’ di vergogna al neomelodico-criminale napoletano, un genere nel quale l’apologia della mafia è la regola.
Sembra strano che Gué Pequeno e Tedua sfigurino nel disco di un muratore casertano balbuziente con le corde vocali consumate. Neanche Massimo Pericolo esce benissimo da TAKEO ISCHI, ma rimane senza dubbio il featuring più riuscito. C’è un certo feeling tra Ugo e Alessandro (Speranza e Massimo Pericolo, a scanso di equivoci), che presentato così sembra una pacifica e rispettosa amicizia e invece significa che c’è qualcosa che accomuna Gallarate e Caserta. Una periferia che i senatori del rap non riescono più a raccontare come dovrebbero. Night Skinny, Crookers, Don Joe, simoo, Riley Beatz e MAIOLE alle produzioni danno la botta grime che serviva ai pezzi più forti.
IRIS, singolo che aveva annunciato l’album insieme a FENDT CARAVAN, e A LA MUERTE devono molto alla canzone popolare, i racconti di scelte sbagliate così inverosimili da essere veri.
Da qui non si torna indietro.
Finalmente qualcuno ha tirato fuori la violenza e ne ha parlato come di un enorme rito di purificazione. I soldi come movente sono un problema sociale ormai monopolio di chi si è comprato le collane di diamanti con il proprio nome e le auto da un milione di euro. Forse il ristagno problematico del rap italiano non è una questione di nomi, ma di modalità di vedere la violenza.
Possiamo dire che, fino ad oggi, la maggior parte del rap italiano si immaginava i quartieri popolari come un sacco da boxe con dentro un sacco di soldi, al quale tirare pugni per fare uscire le banconote. E che nel disco di Speranza i quartieri popolari sono un sacco da boxe con un sistema circolatorio, e più pugni riesci a tirargli più ti senti soddisfatto; il sangue che ti rimane sulle nocche te lo pulisci subito, nessuno deve vederti e la mattina dopo al lavoro tutti sapranno ma nessuno parlerà.
Speranza mette nel disco tutta la tradizione della ribellione popolare, l’intifada che non si ferma davanti ai soldi . Non si sente l’eletto dal popolo, eppure lo è. Nemmeno portatore di speranza, anche se ci ha sempre pensato, da quando si è trovato questo nome d’arte, vent’anni fa. Non si sente neanche immortale, anche se lo è il disco che ha tirato fuori: Speranza è L’Ultimo A Morire. Ricorda qualcosa?