The Haunting of Bly Manor: cocente delusione e clamoroso tonfo di Flanagan | Recensione
The Haunting of Bly Manor, seconda stagione della serie horror antologica di Mike Flanagan per Netflix, si rivela una cocente delusione e una rumorosa débâcle.
The Haunting of Bly Manor si è rivelata una dolorosa delusione per tutti i fan di Mike Flanagan e del suo gioiello orrorifico Hill House. La seconda stagione della serie antologica targata Netflix è un clamoroso passo indietro rispetto al folgorante esordio di due anni fa. I motivi che hanno portato a questa cocente débâcle sono numerosi, tenteremo nella nostra recensione di snocciolarli uno ad uno.
Bly Manor e Il Giro di Vite di Henry James
Come per la prima stagione, anche Bly Manor è tratto da un classico della letteratura di genere. In questo caso oggetto dell’adattamento èIl Giro di Vitedi Henry James, opera gotica di fine ottocento, celebre per la propria ambiguità e difficile interpretazione che travalica i confini di “storia di fantasmi” per abbracciare un contesto ben più ampio e complesso, pieno di significati nascosti, riflessioni sulla società dell’epoca e sul destino degli uomini. Un’impresa, quindi, estremamente complessa per Mike Flanagan quella di adattare uno dei capolavori di James al piccolo schermo. Un’impresa completamente fallita, purtroppo.
La trama è semplice: un’istitutrice viene assunta per educare due orfanelli di alto lignaggio in un maniero antico e imponente situato nella campagna inglese. Il compito le viene affidato dallo zio dei bambini, troppo indaffarato (e indifferente) per potersene prendere cura. Ben presto, però, la donna si troverà suo malgrado in una spirale soprannaturale che la porterà a sospettare dei due piccoli. Quest’ultimi sembrano condividere oscuri segreti con due spaventose presenze.
The Haunting of Bly Manor, Recensione | Il vero orrore è l’ossessione per gli anni ’80
Fatichiamo, ormai, a capire l’ossessione di Netflix per gli anni ottanta. Nessuno discute il potere della “granitica” legge del revival, però quando si esagera l’espediente diventa alquanto fastidioso. L’approccio, inoltre, assume contorni ancora più disturbanti quando, almeno per chi scrive, l’epoca rappresentata non calza neppure lontanamente con la storia che si vuole raccontare. O meglio, quando la stagione decennale è impostata in modo tale da prenderne solo le caratteristiche meno utili al racconto.
Il primo livello su cui la scelta si rivela infelice è quello prettamente legato alla fotografia e alla regia. Flanagan e i suoi due direttori della fotografia (Maxime Alexandre e James Kniest) hanno optato per un aspetto eccessivamente patinato e “zuccheroso” del decennio. Un approccio che si è tradotto in un risultato profondamente alienante rispetto al contesto e alla storia. A finire sul banco degli imputati è soprattutto l’illuminazione, che risulta, per molti spettatori, una scelta davvero incomprensibile. Una luce irrealistica da soap opera che ci induce a pensare alla costante presenza dello Spirito Santo. Una scelta che abbinata all’abbigliamento e ai colori degli anni’80 si traduce in un kitsch involontario.
L’aspetto visivo, quindi, porta alla mente un ibrido tra un harmony e un film romantico sdolcinato inglese o tedesco che spessissimo ritroviamo nei palinsesti pomeridiani delle nostre tv generaliste. Manifesto di tale caratteristica è sicuramente, oltre alle numerose scene diurne, la ripresa in campo lungo del maniero in notturna che ci accompagna ad ogni passaggio tra il giorno e la notte. Una nebbiolina fatata, investita da luce soffusa, invade l’imponente dimora trafugando qualsiasi sentimento di inquietudine e che ci porta a pensare a qualcosa del tipo “Amore lussurioso in Cornovaglia”.
Ad aggravare l’impostazione visiva ci pensa la confusionaria e sfilacciata regia dei numerosi direttori che si dividono gli episodi. Alcune scene appaiono involontariamente comiche e marcatamente inverosimili. Basti pensare ai primi episodi dove sono presenti alcuni bokeh che lasciano a fuoco due soggetti posti in diversi piani dell’inquadratura. Ad esempio, uno dei primi confronti tra l’istitutrice e la governante all’interno della chiesetta della proprietà usa questo espediente con risultati da telenovela colombiana di dubbio gusto. A conferma della visione poco ispirata c’è la settima puntata, ove il bianco e nero sposato all’ambientazione settecentesca risulta estremamente scialbo, più vicina a un filtro instagram che alla piena padronanza della tavolozza bicolore.
Con indulgenza potremmo giustificare questa infelice rappresentazione alla difficoltà presentatesi durante la post produzione. Infatti, come riferito da Kniest, la fase è stata profondamente inficiata dalla pandemia che ha impedito agli addetti ai lavori di lavorare con comodità e mezzi, costringendoli a operare da remoto con iPad e impedendogli di avere una visione d’insieme su schermi adeguati. In soldoni, Kniest non ha avuto la possibilità, prima del completamento, di vedere il proprio lavoro su uno schermo da 60 pollici.
Per fortuna, c’è un riscatto (soprattutto nella seconda parte) grazie a una buona gestione degli interni in notturna e alla maggior fluidità della cinepresa nell’accompagnare i momenti più alti del climax. A questo proposito, appare perfettamente riuscito l’inserimento di una sagoma sullo sfondo dei corridoi bui. Aguzzate la vista, in ogni scena in cui si esplora la casa, noterete in una parte dell’inquadratura sempre una silhouette inquietante di qualche fantasma che abita la casa. Un buon horror spinge lo spettatore a guardare negli angoli e, almeno in questo, Bly Manor riesce.
Purtroppo, sul piano visivo e registico, le note positive si fermano qui. Per ritrovare altri punti a favore dobbiamo spostarci sul montaggio e su alcune interpretazioni attoriali. Per quanto riguarda il primo, risulta ancora una volta notevole la gestione dei piani temporali da parte di Flanagan e dei suoi collaboratori. Espressione migliore di tale abilità la ritroviamo nella quinta puntata, forse la migliore della stagione, che a ritmo serrato e frenetico esaspera l’intercambiabilità dei piani temporali con efficacia.
Sul piano attoriale, impossibile non citare l’incredibile performance del piccolo Benjamin Evan Ainsworth, formidabile nella sua interpretazione di un bambino adultizzato e che trova la sua massima espressione nella scena de “l’ora della storia”.
Bly Manor:ti racconto l’amore, metti da parte l’orrore
La risposta all’impostazione harmony dell’immagine la ritroviamo nella trama. Bly Manor è principalmente il racconto di tante storie d’amore. Qui, forse, ritroviamo l’anello debole della narrazione. Difatti, tramutando la vicenda in un lungo romantico intrecciarsi si è perduto il punto focale e terrorizzante dell’opera originale. Il racconto di Henry James fa delle memorie dell’istitutrice la fonte principale delle inquietudini. L’orrore più grande del romanzo è rappresentato dall’evoluzione della consapevolezza da parte della donna di ciò che sta accadendo ai bambini, in un climax di tormento, dannazione e isteria. L’introduzione dell’elemento sdolcinato annacqua tutta la tensione emotiva della storia, semplicemente perché le scene d’amore fagocitano totalmente quelle dell’orrore.
Pertanto, nonostante la storia di James si presti perfettamente all’approccio tipico di Hill House, Bly Manor, con il suo carattere traditore e zuccherino, non gode della passione, del tormento, della pressione psicologica del suo illustre predecessore; perdendo del tutto quell’impostazione che rendeva, in Hill House, l’orrore così vero, così quotidiano, così reale. Inoltre, a insidiare il genere di riferimento, è anche la completa assenza della paura irrazionale, frutto della fervida immaginazione, puramente horror, fatta di fantasmi, case stregate, ombre nascoste, esseri immondi. Bly Manor non fa sobbalzare mai, non inquieta mai, non terrorizza mai. Per una storia dell’orrore equivale a un porno senza sesso.
Riprovaci ancora Mike! Questo periodo buio passerà.
Trailer
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