Il setting. Nel corso dei giochi le ambientazioni variano, spostandosi dagli scenari alla Tolkien del primo titolo fino a ricostruzioni stereotipiche abbastanza caratteristiche di quel periodo: il livello “della Cina”, il livello “dell’antico Egitto”, il livello “del tempio tibetano” e così via. In Crash Bandicoot in quegli anni avviene lo stesso.
Forse nel tentativo di conquistare un pubblico più adolescenziale e allo stesso tempo alla ricerca di maggiore spensieratezza, negli anni i titoli introducono nel gameplay una serie di elementi pensati per questo scopo. Ecco quindi che Spyro va in skateboard, guida sottomarini lancia-siluri, usa cannoni militari, sfreccia su carrelli, ecc.
Poco male se l’integrità del setting, perfettamente bilanciata nel primo titolo, viene intaccata e demolita: il divertimento c’è e questo conta. Aiuta anche il fatto che si possano utilizzare diversi personaggi e si possano affrontare sfide sempre improbabili e fantasiose, come dover addestrare una manta in fondo all’oceano e così via.
Lo schema del gioco quindi, ripetuto quasi identico per tre volte, si arricchisce di nuovi elementi che non rivoluzionano il gameplay ma lo modificano quanto basta a non rendere la formula noiosa. D’altra parte il giocatore medio di Spyro dell’epoca non chiede troppo: sono raccogliere gemme e arrostire i nemici.
Qual è il migliore?
Una domanda che per molti non avrà senso, ma poniamocela comunque. Partiamo dal primo titolo: è semplice, tra i livelli variano soprattutto le ambientazioni e non ci sono poteri speciali, salvo che nelle aree “di volo”. Viene stabilito “lo stampo” della serie, la base da utilizzare per i sequel. E già funziona benissimo.
Spyro 2 è più fantasioso, rinuncia ai limiti delle ambientazioni fantasy e offre maggiori possibilità di gameplay, ma rimane comunque attento ad una coerenza d’insieme. Tolte le prove con Hunter (ufo caprini e compagnia) l’atmosfera fantasy è conservata ma ci sono molte più cose da fare e posti anche molto differenti da visitare.
Il terzo capitolo è quello forse più “infantile”, nonostante una trama ben sviluppata rispetto agli altri due. I livelli sono fitti di mini-giochi e distrazioni occasionali che divertono ma servono a poco. Gli ambienti stereotipati parlano da sé. In sostanza: grande divertimento ma anche grande confusione.
Tra tutti e tre Spyro 2 è in definitiva forse quello più equilibrato, che prende il meglio dagli altri due fornendo un’esperienza di gioco piacevole ma non banale, insistendo su pochi elementi ma ben sfruttati. Detto questo, sappiamo benissimo che in moltissimi eleggeranno il primo gioco come miglior capitolo: è anche giusto.
Conclusioni: come creare una saga platform che funziona
I tre giochi di Spyro si rivolgono all’epoca a un tipo di giocatore che apprezza particolarmente il mezzo videoludico come tramite per l’esplorazione di universi fantasiosi, anziché (come oggi) in quanto strumento di ri-creazione della realtà. Spyro è tutto tranne che realistico.
E va bene così, perché è un gioco di evasione. Non è un gioco (o meglio, non sono tre giochi) nei quali si deve riflettere, confrontarsi con un mondo difficile o cogliere concetti astrusi. Al contrario: si devono semplicemente superare delle sfide, oltrepassare ostacoli, vagare liberamente tra poligoni e colori palesemente finti.
Ma è proprio questo il bello: siamo in un’epoca nella quale il realismo nel videogame è molto difficilmente raggiungibile. I platform come Spyro quindi non ci provano neanche e vanno in direzione totalmente opposta: sfruttano le capacità dell’hardware per creare mondi immaginari e ambientazioni surreali.
Come risultato, un’intera generazione di giocatori cresce imparando, con giochi come questo, ad espandere la mente sviluppando fantasia e capacità d’immaginazione, forse un po’ come negli anni ’60 gli hippies con le droghe psichedeliche. L’hanno sempre detto: che abbia fatto più male che bene? Lo sapete solo voi. A noi, Spyro ha fatto sempre bene.