La storia e il significato di uno dei video più memorabili e significativi della storia
Anno 1997. Nei meandri del britpop, genere di punta dell’epoca ma che si va lentamente spegnendo, spunta un nome: TheVerve. Il gruppo è attivo in realtà fin dal 1990, inizialmente in ambito neo-psichedelico con influenze shoegaze. Vengono da Manchester e si sente.
Non gli ci vuole molto, dopo un primo album poco riuscito, per diventare uno dei gruppi di punta del britpop, sull’onda del successo di band come Oasis e Blur. Già nel 1995 il loro secondo album, A Northern Soul, ottiene un grosso successo. Ma per il momento la celebrità della band rimane confinata principalmente al Regno Unito.
Che è comunque già tanto, considerando che dalle fucine musicali inglesi escono in quegli anni alcuni dei nomi più significativi di sempre, come Radiohead, Muse, Placebo, Coldplay, Travis. Ma in qualche strano modo i Verve li superano tutti. Sono infatti particolarmente amati, sia dal pubblico che dagli altri musicisti.
Tanto per dire: una canzone di (What’s the Story) Morning Glory degli Oasis, cioè l’album più significativo di tutto il britpop, è dedicata proprio a Richard Ashcroft, cantante dei Verve. Si tratta di Cast No Shadow. O ancora: presentando Ashcroft al Live 8 nel 2005, Chris Martin lo definisce: “Il miglior cantante del mondo”.
“No change, I can’t change, I can’t change, I can’t change”
Per quanto quindi la musica dei Verve non sia strutturalmente importante per la storia del britpop quanto quella degli Stone Roses o degli Smiths o dei Suede, è estremamente amata in un modo che è difficile da comprendere se non si è inglesi. Già a metà anni ’90, quindi, i Verve sono amatissimi in patria.
Ma il vero successo deve ancora arrivare e arriva un po’ per caso un po’ per calcolo nel 1997. Quello è l’anno della “morte” del britpop e della nascita del post-britpop. Quel genere ibrido che del britpop riprende il discorso in maniera meno sferzante, lo contamina con l’alt-rock americano e lo adatta a radio e televisioni.
Nel ’97 gli Oasis si perdono all’interno del proprio successo con Be Here Now, giudicato a tratti una cafonata, a tratti un capolavoro. I Blur invece escono dalla corsa con l’omonimo Blur, sposando il rock lo-fi d’oltreoceano e iniziando a guardare oltre le possibilità del rock inglese.
Il ’97 è anche l’anno di OK Computer, il disco con il quale i Radiohead cambiano un po’ tutte le regole del gioco. E mentre gruppi post-britpop come Travis, Starsailor, Toploader, Stereophonics, Keane e ovviamente Coldplay si vanno formando, pronti a invadere la scena, i Verve mettono il loro punto e virgola personale al genere.
“But I’m a million different people from one day to the next”
Questo punto e virgola è Urban Hymns, disco di estremo successo che vende centinaia di migliaia di copie e permette finalmente alla band di varcare con la propria musica la Manica e i mari attigui. I singoli trainanti sono Lucky Man (qui sopra), The Drugs Don’t Work e ovviamente Bitter Sweet Symphony.
Se eravate adolescenti o anche solo bambini abbastanza grandi tra gli anni ’90 e gli anni ’00, conoscete tutti a memoria Bitter Sweet Symphony. Soprattutto la parte di archi che accompagna la canzone, diventata infine con gli anni un patrimonio comune nell’immaginario musicale collettivo.
La canzone spopola in radio e in tv, e compare nel film Cruel Intentions (1999) che la rende ancora più popolare. Poco importa che la sezione di archi provenga da un arrangiamento di The Last Time dei Rolling Stones: vengono riconosciuti i credits dovuti a Jagger/Richards e il gioco è fatto.
Ma quello che ne rimane è soprattutto il video, che tra l’altro è stato da poco restaurato in 4K. Richard Ashcroft che cammina, ignorando tutto e tutti, cantando: “No change, I can’t change, I can’t change, I can’t change”, è una delle cose più profondamente anni ’90 che siano mai esistite.
“But I’m here in my mold, I am here in my mold”
Non solo la sua “passeggiata” lo rende un vero simbolo della musica inglese, al fianco di Steven Morrissey, Paul Weller o Ian Brown. No, il fatto è che milioni di persone si identificano in quel suo atteggiamento freddo ma in realtà disperato, desiderando anche loro di poter camminare così per strada, insensibili a tutto.
Nel video, come sapete, Ashcroft percorre Hoxton Street, a Londra, marciando dritto su un marciapiede senza mai fermarsi. Urta letteralmente chiunque si trovi sulla sua strada e rischia pure di finire investito. L’atteggiamento esibito è quello di chi si sente superiore a tutto e a tutti. Ma il testo cantato dice l’esatto contrario.
Il dolce/amaro della canzone è proprio questo: esibire distacco ma provare paura; cercare distanza per non essere costretti ad amare la vicinanza; procedere dritti verso la propria meta, ma restando impantanati a fare la “muffa”. Il fascino della canzone è irresistibile e conquista tutti.
Anche chi di noi non è cresciuto con quel video, scoprendolo magari in un secondo momento o in un altro contesto, oggi difficilmente non proverà almeno un brivido a risentirla. Quello di Bitter Sweet Symphony è uno di quegli episodi nella storia della musica che restano per sempre.