Al contempo però il Fellowship era stato assegnato ad altre figure chiave della storia del videogioco, tra le quali Shigeru Miyamoto, padre di Mario, Donkey Kong e Zelda. Il premio assegnato a Hideo Kojima ha però, se vogliamo, un significato più importante. Da sempre l’approccio di Kojima all’arte videoludica è caratterizzato da una profonda sperimentazione transmediale, che mira all’elevazione del gioco allo stato dell’arte. Possiamo dire che il percorso iniziato con Metal Gear Solid si è realizzato compiutamente proprio con questa prestigiosa statuetta, che ha ammesso a tutti gli effetti l’homo ludens nell’olimpo delle arti audiovisive.
Il trattato di Johan Huizinga del 1938, Homo Ludens, è una chiave di lettura fondamentale dell’intera poetica di Hideo Kojima. Analogamente al mondo animale, il gioco rappresenta per l’uomo il momento esplorativo per eccellenza, attraverso il quale conosce e plasma la realtà che lo circonda. E non dobbiamo rivolgerci al suo ultimo capolavoro per comprendere la centralità di questa naturale evoluzione dell’homo sapiens nella sua produzione. Logo della Kojima Productions e personaggio appartenente alla mitologia di Death Stranding, l’Homo Ludens è l’autentica incarnazione del videogioco secondo Hideo Kojima. Le sue opere sono esperienze totalizzanti della realtà , realizzate attraverso il compenetrarsi perpetuo di tante forme e forze espressive, mantenendo però il gioco, in senso huizinghiano, come scopo ultimo e supremo.
Game Creator: 70% of my body is made of movies. Così si presenta, in maniera decisamente minimal e sintetica, sul suo profilo Twitter, fornendoci una coordinata essenziale. Il 70% del suo corpo è fatto di cinema, e probabilmente anche il 70% dei suoi giochi lo sono. Tra tutte le forme espressive, il cinema ha un ruolo decisamente centrale. Per Kojima la settima arte non è solo un linguaggio da sfruttare e piegare in maniera transmediale al videogioco, ma anche una fucina di riferimenti e ispirazioni che nutrono e arricchiscono le sue opere di una dimensione spesso spirituale.
Il cinema è per Hideo Kojima il linguaggio di riferimento
Nella saga di Metal Gear Solid contiamo decine e decine di ore di cutscenes, e alcune tra le più lunghe mai realizzate. Esemplare la cinematica di circa 50 minuti da Guns of the Patriots, il quarto capitolo della saga, un vero e proprio mediometraggio all’interno del videogioco. Non c’è cinema però esclusivamente nelle sequenze non giocabili. L’impianto scenico delle Kojima Productions è curato in maniera maniacale, ed è sempre plasmato su sceneggiature che davvero fanno spesso fantasticare su Kojima quale autore per lo schermo. Copioni memorabili, personaggi che sono storia e una costante tensione verso tematiche difficilmente accostabili ad un videogioco.
E spesso il cinema viene omaggiato per vie traverse, come quel mondo a cui Kojima sente di appartenere e che è davvero la sua scuola di formazione. Così, rimanendo su Metal Gear Solid 4, troviamo uno struggente finale sulle note del compianto Ennio Morricone. Da Sacco e Vanzetti, Kojima prende in prestito la splendida Here’s to you per chiudere il capitolo che di fatto, con lo scontro tra Solid Snake e Liquid, chiude un’intera epopea.
Se invece guardiamo al recentissimo e controverso Death Stranding, troviamo una sorta di enciclopedismo filmico. Nel mondo distopico delle Città Unite d’America troveremo vere e proprie capsule del tempo, dei chip contenenti dati su quel mondo perduto nella catastrofe. Dalla colonna sonora di Profondo Rosso al capolavoro di Akira Kurosawa, I 7 Samurai, Kojima ha versato tutto il suo immaginario in quelle che, forse, sono le sue capsule del tempo. Ma d’altronde da un’opera che conta un cast del genere non potevamo che aspettarci che l’apoteosi della transmedialità .
Oggi assume quindi una carica praticamente profetica la rivoluzione che fu Metal Gear Solid nella generazione Playstation. L’approccio alla narrazione e alla regia, sia all’interno delle sequenze di gameplay che nelle numerose cutscenes, la qualità e la cura dell’impianto sonoro e visivo, erano il sintomo di un’esigenza impellente, di un’urgenza artistica che combatteva con i limiti tecnologici dell’epoca. Kojima, come un vero e proprio Orson Welles, si mise a capo di tutti i comparti della produzione, dalla direzione al game design passando per la sceneggiatura, contribuendo anche in questo a definire la sua fibra autoriale e una nuova figura di autore videoludico.
Uno spirito creativo che a tutti gli effetti valicava gli standard e, di volta in volta, li ridefiniva. É lui stesso ad aver da sempre reso esplicita la sua cieca fiducia nel progresso della tecnica, complemento necessario dell’immaginazione:
«Il 90% di quello che viene considerato impossibile, si rivelerà infine possibile. Il restante 10% diventerà possibile con l’avanzare del tempo e della tecnologia.»
Solo grazie alla tecnologia Kojima è riuscito ad esprimere nella maniera più compiuta le sue visioni. Ciò che quindi nel primo Metal Gear Solid era un bollente spirito creatore, troppo stretto nell’architettura hardware di una Playstation 1, oggi dà vita a opere straordinarie, in cui l’unico limite è davvero l’orizzonte del suo pensiero.
La maturità dopo l’era Konami
Questo ci porta direttamente ad una vera e propria trilogia di capolavori, che condensano compiutamente la visione artistica di Kojima. Stiamo parlando di P.T., The Phantom Pain e Death Stranding. Ciò che accomuna i primi due è la capacità di aver completamente ridefinito il rapporto con il pubblico, trasformando il concetto di trailer in un’esperienza, se vogliamo, più interessante del gioco stesso.
P.T. di fatto non è un gioco vero e proprio, ma un teaser giocabile di un capolavoro annunciato, e purtroppo mai arrivato. P.T. sta proprio per playable teaser. Pare che ormai il progetto Silent Hill sia definitivamente naufragato, nel dispiacere di un pubblico che aveva trovato in P.T. uno dei migliori survival horror di sempre. La complessità degli enigmi passa in secondo piano rispetto alla genialità dell’idea registica dietro quest’anteprima dell’horror che avrebbe visto Guillermo Del Toro sulla director’s chair.
La chiusura dell’era Konami di Kojima, suo publisher storico, avvenne però con il quinto capitolo della saga di Metal Gear Solid, anch’esso anticipato da un preludio, Ground Zeroes. Piegare la formula del capolavoro stealth ad un’architettura open world è stata l’ennesima conferma dell’impellente necessità di sperimentazione che anima l’opera di Kojima. Il risultato è uno dei migliori giochi della generazione, al netto di un’ambizione sfrenata che tende ad allontanare il grande pubblico.
Death Stranding è la summa dell’arte di Kojima
Era forse necessario svincolarsi da Konami per far sì che quell’ambizione non avesse davvero alcun freno. Con Death Stranding Kojima ha distrutto qualsiasi paradigma del genere action e del genere stealth, che ha contribuito a sua volta a definire e far emergere. L’avventura di Sam Porter Bridges, ambientata in un mondo la cui qualità visiva lascia senza fiato, costringerà il giocatore a ridefinire i propri preconcetti riguardo il gioco e l’esperienza videoludica. Ciò che è missione secondaria nella maggioranza dei titoli con cui Death Stranding si confronta, in quest’ultimo è la main quest: consegnare pacchi.
Ma dietro ciò si cela l’essenza di un gioco che può essere davvero considerato la summa di un genio visionario. Il concetto di homo ludens, che trasforma la realtà attraverso il gioco, viene portato alle estreme conseguenze in Death Stranding. Attraverso la sua attività di corriere, il giocatore si troverà a ricollegare un mondo fatto di piccoli micro-universi tutti scollegati tra loro, collaborando con persone di tutto il mondo in una formula di multiplayer asincrono veramente inedita.
E come ogni grande genio, è stato capace di guardare più in là dell’orizzonte degli eventi. Molti hanno ironicamente riconosciuto come Death Stranding abbia anticipato i complessi sconvolgimenti dell’epoca che stiamo vivendo, segnata dall’incertezza e dalla paura verso chi ci è di fronte. La collaborazione tra gli uomini, tema cardine di Death Stranding così come nella minaccia nucleare di The Phantom Pain, è il messaggio che Kojima lancia ad un’umanità sempre più divisa. Un uomo che, in fondo, questo mondo forse vuole salvarlo attraverso il gioco.