Oh! Caparezza avrà pure spoilerato decine di film ai più ignari con il suo brano Kevin Spacey, ma rimane un testo unico nel suo genere. Nella tracklist de Il sogno eretico, risuona da un 2011 lontano e senza ombre oscure all’orizzonte. Chi era Kevin Spacey otto anni fa? Un attore con due premi oscar, un interprete tra i più grandi mai visti ad Hollywood, capace di lasciare un segno inconfondibile anche nei numerosi ruoli secondari che costellano la sua sfolgorante carriera. E mentre usciva il nuovo disco di Caparezza, Kevin Spacey viveva in pieno la sua parabola professionale, ormai in condizione di potersi prestare a qualsiasi ruolo desiderasse. Così, quella che allora era una goliardica celebrazione di uno dei volti più benvisti del cinema americano, oggi suona quasi come un’inquietante predizione:
Caparezza chiude il suo brano citando I soliti sospetti, quasi l’epitaffio di una pietra tombale. La stessa che sembra essere crollata sul nome di Kevin Spacey a seguito dello scandalo sessuale che lo travolse nel 2017. L’onda di accuse rivolte ad Harvey Weinstein diede vita ad una sollevazione di cui faceva parte anche Anthony Rapp, che il 27 ottobre di quell’anno rivelò un evento oscuro del passato di Kevin Spacey. La carriera dell’attore subì un tracollo totale, mentre del movimento MeToo oggi rimane il simbolo più che lo spirito, e i capi di imputazione cadono uno dietro l’altro. Senza giudicare eventi di cui non siamo minimamente informati, è giusto alimentare la stima di un attore finito in un oblio apparentemente ingiustificato. Se è vero che è difficile separare l’uomo dall’artista, come nel caso Polanski, è altrettanto vero che abbiamo assistito ad un’immeritata damnatio memoriae. Oggi scordiamo l’uomo e celebriamo l’attore.
Nel 1992 mancava ancora al palmarès di Kevin Spacey un’interpretazione importante, un ruolo degno di nota. In Americani riesce a non impallidire nel confronto impietoso con un titaneggiante Al Pacino, che in veste di director lavorerà nuovamente con Spacey pochi anni dopo, per Riccardo III. Al contrario emerge egregiamente dalle scene in cui è costretto a confrontarsi con il grande Al Pacino: se non gareggiando ad armi pari, sicuramente promettendo un talento strabordante che di lì a poco sarebbe esploso in alcune delle interpretazioni più memorabili di sempre.
9. The Life of David Gale, Alan Parker (2003)
L’ultima pellicola di un cineasta versatile, capace di attraversare un’ampio spettro di generi, è un film che affronta la delicatissima questione etica della pena di morte. David Gale (Kevin Spacey) ripercorre, con dovizia di particolari, le vicissitudini che da attivista contro la pena capitale l’hanno portato all’ingiusto supplizio. Con un’accusa di stupro e omicidio che pende sulla sua testa, sembra non esserci fine diversa dalla sedia elettrica per il protagonista. In realtà il film risulta abbastanza ambiguo, incapace di assumere una posizione critica sul valore etico della sempre discussa pena di morte: piuttosto, si esprime sui risvolti giuridici di una soluzione così drastica, che chiudono prematuramente processi meritevoli di verità. Inoppugnabile è invece l’interpretazione di Kevin Spacey, perfetto nel suo ruolo, uno tra i numerosi personaggi complessi della sua carriera.
La coppia smaliziata DeVito-Spacey che due anni prima collaborò in L.A. Confidential torna come protagonista assoluta di un’ottima trasposizione della piece Hospitality Suite di Roger Rueff. Se il monologo finale di Danny DeVito è entrato indiscutibilmente nell’immaginario collettivo, di certo non meno importante è il ruolo di Kevin Spacey. Il suo modo di recitare è il momento più fisico di un distico perfettamente equilibrato: il duo di disillusi commercianti, che faticano a relazionarsi con il giovane di primo pelo, ha portato in scena un’alchimia brillante e variegata.