Come si fa un puzzle game nelle serie TV: Dark porta a scuola Lost
Dark è arriva alla fine del suo percorso: e ora che il destino di Winden è noto, appare evidente che la serie tedesca abbia superato quella da cui ha preso ispirazione
Dallo scorso 27 Giugno, su Netflix è disponibile la terza e ultima stagione Dark. Un arco di otto episodi che pone la parola fine alle intricate avventure temporali degli abitanti della città di Winden.
Con la terza stagione si chiude quindi un cerchio iniziato nel 2018 dove, sebbene alcune domande secondarie siano rimaste senza risposta, gli sceneggiatori hanno dimostrato di aver avuto sin dall’inizio in mente la struttura della serie, i rimandi da fare e anche il percorso da seguire per ottenere un finale che fosse coerente con quanto era stato raccontato.
Sono stati proprio gli stessi sceneggiatori di Dark ad affermare, in passato, che parte dell’ispirazione per la loro bellissima serie è venuta dalla visione di un’altra serie altrettanto importante, Lost. Ed è a Lost che Dark viene più spesso associata, vuoi per la struttura “a puzzle”, vuoi per alcune caratteristiche della storie che sono comuni in entrambi i prodotti.
La grande differenza è che Dark è risucito a tenere insieme i pezzi dall’inizio alla fine: ecco perché cercheremo di analizzare perché non solo Dark può essere considerato l’erede di Lost, ma soprattutto perché siamo davanti ad un caso di allievo che supera il maestro.
Naturalmente nell’articolo che segue potrebbero esserci spoiler per chi non ha visto Dark e Lost nella loro completezza.
L’importanza di Lost nel mondo della serialità
Prima di tutto va riconosciuto a Lost il peso che ha avuto nel mondo della serialità. Quando nel 2004 la serie di J.J. Abrams ha debuttato su Rai 2, il mondo delle serie TV non si era mai trovato davanti un prodotto popolare – e quindi non gestito dalle mani di grandi autori – che miscelasse al suo interno l’azione, la spiritualità così come elementi che derivano dalla sfera del fantastico, inteso come fantasy e come fantascienza.
Quando erano ancora lontani gli anni di Netflix, del Binge Watching, dell’abbuffata di serie, Lost è stato il prodotto che ha portato milioni di spettatori in tutto il mondo a seguire le vicende di un gruppo di naufraghi alle prese con un’isola piena di misteri.
È stata una delle prime serie ad essere seguita in contemporanea con gli Stati Uniti anche da quella fetta di pubblico che non rientrava tra quelli che oggi definiamo nerd o appassionati. È stato, in altre parole, un programma quasi generalista, che però si differenziava per una sceneggiatura che trasudava genialità e che è stata in grado da una parte di intrattenere lo spettatore giocando con la sua curiosità, dall’altra di creare una mitologia complessa e ricca di spunti.
A prescindere dal fatto che poi molti di questi elementi siano andati persi nel marasma di informazioni offerte e di domande costruite nella coscienza di chi guardava senza essere in grado di dare risposte, qualcosa che non mina comunque l’importanza che ha avuto Lost nella storia della TV né l’affetto che molti spettatori – compresi quelli che ancora oggi si lamentano del finale – ancora provano per un prodotto che magari li ha fatti avvicinare al mondo delle serie TV.
Dark e Lost, tratti comuni
Come è già stato scritto, tra la serie del 2004 e Dark esistono numerosi punti di raccordo. Il primo, forse, e ancora più evidente della manipolazione temporale, è la scelta narrativa di un ambiente circoscritto.
I protagonisti di Lost atterrano sull’isola dopo il disastro del volo Oceanic, e per sei stagioni rimangono intrappolati in una zona chiusa, circoscritta, che è pressoché impossibile da lasciare, anche perchè l’Isola viene percepita come una sorta di entità che non vuol lasciar andare i naufraghi.
Dark si svolge in una cittadina tedesca. Una normale cittadina tedesca che apparirebbe facile da lasciare. Eppure, per tutto l’arco delle tre stagioni, per lo spettatore Winden diventa una sorta di terra staccata da tutte le altre, un microcosmo in cui si può entrare (come fanno Agnes o Aleksander, per fare qualche esempio), ma da cui sembra non esserci uscita. Winden viene percepita come una città sormontata da una cupola di kinghiana memoria, dove tutto si decide e si determina all’interno delle sue barriere naturali.
Tanto il destino di Lost quanto quello di Dark si risolvono all’interno di una striscia di terra dove i personaggi sono costretti a muoversi all’infinito.
Naturalmente un altro elemento molto comune tra le due serie è che entrambe scelgano di giocare sul Principio di Autoconsistenza di Novikov. Di base questo principio fisico serve a teorizzare che, nei viaggi nel tempo, il passato non può essere cambiato. In un anello temporale chiuso – come quello di Dark, dove il principio è la fine è viceversa – gli eventi possono essere determinati non solo dal passato, ma anche dal futuro.
È quello che Jonas apprende quando va da suo padre nella speranza di convincerlo a non impiccarsi e scopre invece di essere lui stesso il motivo per cui Michael si suicida. O quando gli viene spiegato che lui non può morire, perché Adam esiste e quindi lo Jonas “giovane” fa già parte del passato che non si può cambiare.
Anche Lost gioca su questo principio fisico, o almeno è quello che intende fare quando entra in gioco la possibilità di far viaggiare l’isola attraverso le varie dimensioni temporali.
Il tema del viaggio nel tempo
Un altro tratto comune è, naturalmente, la struttura narrativa scelta. Per forza di cose, Dark dipana la sua storia utilizzando vari piani narrativi: i viaggi nel tempo fanno sì che davanti allo spettatori si aprano vari mondi, intrecciati l’uno all’altro proprio attraverso il tema del viaggio. Nella terza stagione, inoltre, le cose si “complicano” con l’apparizione dell’Altro Mondo, quello dominato da Eva e non da Adam come quello a cui gli spettatori si erano abituati. La storia procede dunque da una parte attraverso i viaggi nel tempo, dall’altro attraverso l’intreccio del multiverso.
Lost gioca su binari simili. Tutta la stagione si muove su flashback e flashforward. Da una parte ci viene presentato il passato dei protagonisti pre-disastro aereo, dall’altro gli sceneggiatori giocano con la curiosità dello spettatore dando stralci di (possibili) vite future. Tuttavia all’interno dell’isola, caratterizzata com’è ormai noto da un forte elettromagnetismo, non solo la luce viaggia in modo diverso caratterizzando una sorta di distorsione temporale, ma c’è anche la possibilità di veri e propri viaggi nel tempo, come dimostra l’episodio in cui John Locke riesce a riportare la ruota manovrata da Ben sul proprio asse, trasportando l’isola indietro al 1977.
Infine, proprio come in Dark, l’ultima stagione di Lost si apre con una nuova dimensione. Sul finire della quinta stagione della serie ideata da J.J. Abrams, il personaggio di Juliet aveva fatto scoppiare una bomba che avrebbe dovuto trasportare l’isola indietro nel tempo, ed evitare così che Desmond causasse l’incidente aereo della Oceanic. La quinta stagione finisce con la donna che sussurra un “Ha funzionato”, con una panoramica dell’isola vista in fondo al mare, ripresa poi all’inizio della sesta stagione.
Quando la sesta e ultima stagione inizia, lo spettatore si trova a vedersela con un Altro Mondo – proprio come con Dark -, quello che poi viene definito flashsideways. Per quasi tutta la stagione lo spettatore crede che quella realtà alternativa sia di fatto una linea temporale che si è creata proprio con lo scoppio della bomba. Alla fine, però, scopriamo cosa è veramente la “realtà alternativa” e tutto ciò che Lost aveva costruito comincia a mostrare le sue falle a livello di sceneggiatura.
Dark vs. Lost, dove non ha funzionato la serie di J.J. Abrams
C’è un motivo se a distanza di dieci anni dalla messa in onda del finale di Lost siano ancora molto accese le discussioni riguardo la coerenza dell’ultimo episodio della serie. Sebbene ci siano moltissime persone a cui la chiusura del cerchio è andata bene, sono ancora di più quelle che ancora non si capacitano di aver aspettato sei anni per un finale così pieno di falle.
Forse il principale problema di Lost, rispetto a Dark, è stata la scelta di andare avanti per sei stagioni, per un totale di circa 114 episodi. Un tale dispiegamento narrativo ha richiesto agli sceneggiatori un continuo ricorso a colpi di scena, segreti e misteri per tenere alta l’attenzione del pubblico (cosa in cui sono stati sempre molto bravi) e arrivare a un punto di chiusura.
Questo ha fatto sì che la storia si allungasse e che molti elementi andassero persi all’interno della storia, dimenticati dopo che ad essi era stata data tanta importanza. Dark, invece, si è concentrato su tre stagione, di soli 26 episodi. Un cerchio chiuso, quasi come quello raccontato, in cui gli sceneggiatori hanno potuto pensare ai misteri della trama orizzontale e portarli tutti al pettine.
È indubbio, al contrario, che Lost non ha saputo rispondere ad una grandissima fetta di domande che aveva gettato contro lo spettatore come fossero indizi di qualcosa di più grande che poi è evaporato come il Fumo Nero che aveva tormentato i protagonisti. Il finale di stagione, votato più ad una lettura spirituale ed emotiva del viaggio, sembrava voler in qualche modo distogliere l’attenzione dai grandissimi vuoti di scrittura di cui la serie appare affetta.
Dal momento che tutto Lost – come si evince dal finale – è incentrato sull’incontro di persone destinate a incontrarsi e che sono state plasmate da quello che è avvenuto sull’isola, quello che avviene sull’isola ha meno importanza rispetto alla ricerca delle proprie costanti, delle variabili che potevano dare senso alla propria esistenza. E in questo modo Lost chiude i battenti con una lettura cristiana dell’esperienza umana con cui gli sceneggiatori hanno provato a far dimenticare tutto quello che loro stessi sembravano aver dimenticato.
E il problema di Lost è stato essenzialmente questo: ha scelto una chiave di lettura piuttosto che un’altra, senza capire che avrebbe potuto abbracciarle entrambe. Invece lo spettatore viene a scoprire, nell’ultimo quarto d’ora della serie, che i famosi flashsideways non sono una realtà alternativa, ma una sorta di purgatorio/limbo dove i personaggi (non tutti, solo alcuni) si sono fermati ad aspettare, dimenticando tutto il loro passato.
È una dimensione che non esiste nella terra e nello spazio: è più che altro una dimensione spirituale raggiunta dopo la morte, dove non si capisce perché nessuno ricordi niente del proprio passato e dove ognuno costruisca delle vite che con quelle passate avevano poco a che vedere.
Una dimensione che viene spiegata, letteralmente, in dieci minuti e in cui Jack scopre che tutte le persone che vede in quella dimensione sono morte e che stavano aspettando gli altri per andare avanti. Ancora letteralmente, verso la luce.
Nel finale, inoltre, viene assicurato più volte che l’isola è stata reale, che tutte le vite sono state reali. Questo per mettere a tacere tutte le teorie dei fan che volevano che i protagonisti fossero morti sin dall’inizio con il disastro aereo e che tutte le esperienze vissute sull’isola non fossero altro che un percorso di redenzione.
Una teoria, questa, che cominciò a nascere poco dopo la messa in onda di Lost. Teoria che gli sceneggiatori avevano sempre negato, dicendo che loro avevano studiato la trama di Lost fin nei minimi dettagli e che il limbo non era un’opzione.
Quindi si insiste moltissimo nel dire che l’isola è esistita e che poi ognuno è andato avanti con le proprie vite finché, semplicemente, non è morto. A questo punto è andato nel limbo e ha aspettato – tempi lunghissimi che non vengono quantificati – l’arrivo di tutti gli altri – o almeno di una buona fetta degli altri – per poter procedere di nuovo insieme verso una nuova vita. La luce.
Questa lettura cristiana, appunto, ha annullato tutto quello che Lost aveva raccontato prima, ed è un errore in cui Dark non è caduto. Lost ha lasciato aperte centinaia di domande e anche Dark ha lasciato appesi alcuni interrogativi di cui probabilmente non vedremo mai la soluzione. Tuttavia Dark ha chiuso il cerchio della macrostruttura della trama orizzontale, spiegando i molti dubbi dello spettatore e rimanendo coerente dall’inizio alla fine.
Anzi, invece di trovare una facile soluzione emotiva alle cose che non avrebbero spiegato, gli sceneggiatori si sono divertiti a strizzare l’occhio allo spettatore, come a dire: sappiamo che questa cosa non ve l’abbiamo spiegata. Come avviene, ad esempio, per l’occhio di Wöller.
Il motivo per cui Dark si mostra superiore alla serie da cui ha preso spunto è la capacità di non lasciarsi irretire dalle promesse di successo, dal non lasciarsi corrompere dalla decisione di proseguire a oltranza. Così facendo ha sempre avuto bene in mente quali fossero gli elementi importanti da tenere sempre a fuoco e sui quali concentrarsi.
Ci sono domande che non hanno trovato risposta? Naturalmente. Ma la vera domanda è: queste domande senza risposta hanno inficiato sulla comprensione della storia e sulla sua risoluzione? No. Non lo hanno fatto. Dark funziona bene dall’inizio alla fine, anche dopo aver rivisto le tre stagioni insieme, non c’è un dettaglio della storia principale che sia fuori luogo, o che sia stato messo lì tanto per attirare un po’ l’attenzione.
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