J. R. R. Tolkien è stato, senza ombra di dubbio, uno dei più grandi scrittori fantasy del XX secolo. Professore di lingua e letteratura inglese all’Università di Oxford, ha segnato il proprio ingresso nella storia grazie alla pubblicazione dei racconti de Lo Hobbite Il Signore degli Anelli, oggi cult internazionali (grazie anche ai fortuiti adattamenti cinematografici).
Tolkien, con le proprie opere, ha infatti ufficialmente legittimato il genere fantastico, creando un mondo immaginario a sé stante, dotato di proprie strutture, lingue e tradizioni. E inserendo così le avventure della Terra di Mezzo in un ciclo favolistico, che trasforma l’eredità folkloristica in un nuovo, avvincente, filone narrativo.
Ma, ahimè, da buon amante delle fiabe tradizionali (a cui si ispirò per creare gran parte dei suoi lavori), ebbe non poche avversioni con un altro colosso del genere. Colui che aveva fondato, proprio su questi racconti, la sua fortuna: Disney. Sebbene infatti Tolkien riconobbe il genio di Walt Disney, criticò profondamente alcune sue realizzazioni. Prima fra tutte l’adattamento della storia di Biancaneve e i sette nani.
Il lungometraggio uscì nel 1937, in concomitanza con la pubblicazione de Lo Hobbit, con cui condivideva la presenza di nani nel racconto. E Tolkien non si risparmiò di certo su una serie di giudizi piuttosto negativi, sull’opera del suo avversario.
Biancaneve e i sette nani: per Tolkien una banalizzazione
Nel 1981 venne pubblicato, a cura del biografo Humphrey Carpenter e del figlio dello scrittore, Christopher J.R. Tolkien, il volume The Letters of J.R.R. Tolkien. Una raccolta di lettere, 354 in totale, legate alla vita personale e alle pubblicazioni dell’autore fantasy. In alcune di queste, emergeva l’avversione di Tolkien per la Disney: descrisse Walter, il fondatore, come irrimediabilmente corrotto e le sue opere come un esempio di cattivo stile.
Ma da dove nascevano queste pesanti accuse? Apparentemente, dallo scottante tema delle fiabe. Per Tolkien, veterano del settore, queste erano un importante cimelio della tradizione letteraria e non rimase soddisfatto, quindi, della banalizzazione che, a suo avviso, ne fece Disney. In particolare, lui e l’amico C. S. Lewis (autore de Le cronache di Narnia), dopo aver visto Biancaneve e i sette nani, rimasero profondamente scontenti del ruolo ricoperto dai nani all’interno del racconto.
Scrisse Lewis all’amico A.K. Hamilton, a proposito del film: “Naturalmente i nani dovrebbero essere brutti, ma non in questo modo” e definì poi le loro facce come “gonfie, da ubriachi o comici di bassa lega”. Un commento che sottolineava come la realizzazione di queste figure, appartenenti al tema favolistico tanto caro a Tolkien e Lewis, era in realtà ben lontana dai loro gusti.
Tolkien, grandissimo sostenitore e amante delle fiabe, nella loro tradizione più pura, rimase insoddisfatto dell’apparente “svilimento” dei personaggi mitologici fatto da Disney, che introduceva queste creature nell’immaginario comune in maniera deformata. In più, l’adattamento cinematografico di Biancaneve, usciva a pochi mesi di distanza dall’opera de Lo Hobbit. Dove i nani apparivano, in parte, con elementi simili a quelli disneyani, ma con caratteristiche moralmente più elevate.
Quel racconto per bambini
Lo Hobbit fu infatti il primo romanzo che pubblicò Tolkien, il 21 settembre del 1937 (tre mesi prima dell’uscita di Biancaneve). Nato come racconto per bambini, la storia iniziava presentando le figure di 13 nani, che si ispiravano agli gnomi presenti nei racconti dei fratelli Grimm: uomini in miniatura, con folte barbe e cappelli colorati, che amavano cantare (vi ricordano qualcuno?).
Tuttavia, nell’incedere del racconto, Tolkien decise di modificarne le caratteristiche, traendo ispirazione dalla mitologia norrena. Così questi protagonisti diventarono abili fabbri, forgiatori che abitavano nelle montagne, ricchi e astuti (molto più simili alle figure che incontriamo nella saga de Il Signore degli Anelli). In più, nei propri racconti, Tolkien, inventore di linguaggi, si impegnò a crearne una forte identità culturale, lavorando sulla loro storia e sulle loro tradizioni (così come fece poi per altri personaggi della Terra di Mezzo, quali gli elfi).
Non è quindi difficile capire, in questo contesto, l’avversione di Tolkien per il lavoro di Disney. Mentre l’autore inglese lavorava duramente per creare un mondo fantastico che rispettasse, e anzi continuasse, le tradizioni folkloristiche più antiche, il produttore americano sembrava agire in tutt’altra direzione, semplificando queste creature per il proprio pubblico.
La Disney si inseriva infatti in quella corrente che, a partire dal XIX secolo, cercava di relegare le fiabe al mondo dell’infanzia, privandole delle proprie origini, che le destinavano a una lettura più adulta. “L’associazione dei bambini alle favole è un incidente della nostra storia domestica” spiegava Tolkien in un saggio sul tema.
Fu per questo, probabilmente, che la versione Disney venne definita da Tolkien “volgare”, rivolta cioè a un pubblico che non poteva capirla davvero a pieno.
Tolkien vs Disney: Un’avversione reciproca?
Ma Disney venne mai a conoscenza di questi pensieri? Probabilmente no. Walter Disney morì infatti nel 1966, mentre le lettere di Tolkien – contenenti le critiche a lui in persona – vennero pubblicate più di una decina di anni dopo. Eppure, forse, qualcosa fiutò.
Tolkien fu categorico al riguardo: non voleva che il proprio nome fosse associato a quello del suo avversario. Per questo affidò le produzioni cinematografiche dei propri racconti ad aziende indipendenti, come la New Line Cinema. E arrivò persino a rifiutare le illustrazioni di Horus Engeles, per l’edizione tedesca de Lo Hobbit, perché le reputava “troppo Disneyficate”.
La Disney Studios, dal canto suo invece, pare abbia rifiutato di trasporre Il Signore degli Anelli in una serie animata (richiesta fatta, apparentemente, dagli editori di Tolkien senza il suo consenso). Lavorando, tuttavia, alla colonna sonora per Lo Hobbit – film TV del 1977 inedito in Italia. Un’unica, importante eccezione. Ironico, no?
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