Il mio cuore e il mio animo, fin dall’infanzia, erano inclini al delicato sentimento della benevolenza e sono sempre stato disposto a compiere azioni generose. Considerate però, che da sei anni mi ha colpito un grave malanno peggiorato per colpa di medici incompetenti. Di anno in anno le mie speranze di guarire sono state gradualmente frustrate, ed alla fine sono stato costretto ad accettare la prospettiva di una malattia cronica (la cui guarigione richiederà forse degli anni o sarà del tutto impossibile). Pur essendo dotato di un temperamento ardente, vivace, e anzi sensibile alle attrattive della società, sono stato presto obbligato ad appartarmi, a trascorrere la mia vita in solitudine.
Questo passaggio è l’incipit di una celebre missiva, passata alla storia come Testamento di Heiligenstadt. Il suo autore è Ludwig Van Beethoven, che scrisse queste parole nel pieno di una crisi esistenziale. È fatto noto: il leggendario compositore tedesco divenne sordo. Il canale attraverso cui la sua arte diventava materia dei sensi fu reciso per sempre, proprio in colui nel quale l’udito un tempo raggiungeva un grado di perfezione massima, un grado di perfezione quale pochi nella mia professione sicuramente posseggono, o hanno mai posseduto.
Nel 2011 Ezio Bosso inizia il suo personale calvario; la lotta contro una malattia misteriosa, inizialmente identificata con la SLA, che ieri l’ha portato via a soli 48 anni dopo atroci sofferenze. Così oggi non vogliamo di certo tentare un paragone tra il maestro torinese e il padre del romanticismo viennese. Vogliamo celebrare la memoria di Ezio Bosso attraverso la lettura del dolore, che lo collega a doppio filo proprio a Beethoven, che lui non a caso ha sempre considerato il suo riferimento d’elezione.
Ezio Bosso e Beethoven: l’eredità del maestro viennese
Perché la lettera che Beethoven scrive ai suoi fratelli è diventata un testamento? In effetti, fermandosi alle prime righe della missiva ciò che traspare è una profonda misantropia. Non poteva che essere così, d’altronde: Beethoven non soffre in maniera immanente, ma proietta il suo dolore in quella sensucht romantica che diventa struggimento, desiderio inconsolabile.
L’unica cosa in cui Beethoven può trovare consolazione, da vero eroe romantico come un Ortiz o un Werther, è la propria arte:
Tali esperienze mi hanno portato sull’orlo della disperazione e poco è mancato che non ponessi fine alla mia vita. La mia arte, soltanto essa mi ha trattenuto. Ah, mi sembrava impossibile abbandonare questo mondo, prima di aver creato tutte quelle opere che sentivo l’imperioso bisogno di comporre; e così ho trascinato avanti questa misera esistenza – davvero misera, dal momento che il mio fisico tanto sensibile può, da un istante all’altro, precipitarmi dalle migliori condizioni di spirito nella più angosciosa disperazione.
L’odio per quella società da cui Beethoven cerca di rifuggire schiude dialetticamente un amore universale. Beethoven donerà a tutta l’umanità i suoi capolavori, fino alla celebrazione della fratellanza e della gioia nel finale della IX Sinfonia. Il dolore esistenziale si trasforma in uno dei più grandi capolavori consegnati alla storia dell’uomo, e il suo messaggio non lascia spazio a sofferenze e paure. L’Inno alla gioia di Friedrich Schiller vuole tutti gli uomini fratelli sotto l’ala protettrice della gioia.
Ezio Bosso e l’amore per la vita
[…] dal momento che il mio fisico tanto sensibile può, da un istante all’altro, precipitarmi dalle migliori condizioni di spirito nella più angosciosa disperazione. Potrebbero tranquillamente essere parole di Ezio Bosso. Un uomo con un curriculum sterminato, un pianista che in veste di direttore e solista ha collaborato con alcune delle più importanti orchestre del mondo, incontra il mostro della malattia. Alla fine del 2019 la sua sindrome recide il collegamento con le sue mani, il canale di espressione di un pianista.
La sofferenza connaturata alla vita e la sua complessa accettazione. Due storie, in fondo, perfettamente sovrapponibili. Ezio Bosso brucia però le tappe, semplifica l’elaborazione del dolore, giunge direttamente all’esaltazione della vita. Considerava la sua stessa esistenza un’enorme opportunità, e la malattia un accidente in una vita vissuta fino all’ultimo respiro musicale.
Bosso non parte dall’odio per riscoprire la fratellanza universale. Al contrario, il significato della sua vita è stata sempre quella missione testamentaria di Beethoven. L’incontro con l’uomo, con la gente, con il popolo. Bosso raccontava Verdi, Beethoven, Liszt e Tchaikovsky come solo un grande maestro sa fare. Con la sua fine sensibilità spiegava argomenti altissimi con una tale semplicità che incontrava, a sua volta, la sensibilità di chiunque. E dove finivano le parole iniziava l’ascolto, secondi i principi guida della missione di Bosso: partecipazione e condivisione della musica come esperienza.
Per Ezio Bosso, senza dubbio un racconto umano. Tramite la musica il maestro è riuscito a far vedere l’uomo dietro l’artista, senza alcun clamore legato alla sua malattia e combattendo strenuamente con la crescente sofferenza. E quindi, per converso, l’artista dietro l’uomo, la musica oltre la malattia. Quell’arte capace di valicare i confini fisici di un corpo debilitato e conquistare il cuore di chiunque ne venga toccato.
Si narra che alla prima esecuzione della IX Sinfonia, alla testa di un’orchestra di proporzioni titaniche, Beethoven visse in maniera viscerale la propria partitura contorcendosi, piangendo e ridendo nelle pieghe della musica. Alla fine, in lacrime, si girò e vide il pubblico completamente in visibilio per quel capolavoro. Un applauso che, sicuramente, ha valicato a sua volta i limiti di un orecchio ormai totalmente orbo.
È bello pensare che anche per Ezio Bosso la musica fosse una catarsi fisica capace di liberarlo dalla prigionia di un fisico sempre più debole. Certo è che per il suo pubblico rappresentasse quel messaggio da Heligenstadt in purezza, la quintessenza dell’umanità e dell’amore universale, oltre ogni possibile rancore verso la vita.