Da fenomeno a leggenda: le finals contro gli Utah Jazz
Nelle Finals del 1997 e del 1998 i Chicago Bulls hanno dovuto fare i conti con gli Utah Jazz, una delle squadre più ostiche e competitive mai viste. La squadra di Salt Lake City, infatti, guidata da un vecchio lupo di mare come Jerry Sloan, contava nel roster 2 dei giocatori più forti mai esistiti: Karl “Il postino” Malone, secondo miglior marcatore della storia della NBA e John “Il muto” Stockton, il più forte assist man che il basket abbia mai conosciuto. Erano forti, giovani, affamati. Un osso durissimo per i Bulls che, però, non fu sufficiente. I Tori della città del vento vinsero entrambe quelle finali, entrando nella leggenda dello sport mondiale. Tuttavia nel periodo di quelle partite accadde veramente di tutto. Ecco i racconti più interessanti emersi durante The Last Dance.
The Flu game
Nelle Finals del 1997 i Chicago Bulls vincono le prime 2 partite in casa per poi perderne 2 di fila a Salt Lake City. La gara 5, in una serie al meglio delle 7, è quasi sempre l’ago della bilancia: circa 2 volte su 3 chi vince quell’incontro alla fine porta a casa la serie e, in questo caso, il titolo. La notte precedente alla partita, Jordan racconta come, in preda ad una attacco di fame, avesse ordinato una pizza che, a suo dire, gli causò un’intossicazione alimentare. Passò l’intera notte a rigettare, non si allenò la mattina e si presentò al palazzetto in condizioni pietose.
All’inizio della partita i Jazz sapevano di aver davanti l’occasione della vita e il pubblico presente li trascinò al vantaggio. Tutti sapevano che Jordan, evidentemente provato dal malanno, avrebbe potuto fare ben poco quella sera, tanto che a ogni interruzione si pensava potesse abbandonare la contesa. Tuttavia, quello era Michael Jordan e il pubblicò di Salt Lake City lo imparò una volta di più. MJ mise a segno 38 punti, portando i Bulls in vantaggio per 3 a 2. Tornati a Chicago per gara 6, dopo una partita tiratissima, Jackson e Jordan anticiparono le mosse di Sloan, incaricando Steve Kerr di prendere l’ultimo tiro. L’attuale allenatore dei Golden State Warrios si fece trovare pronto. Il resto, come si suol dire, è Storia.
Nel 1998, dopo una prima partita vinta da Utah, Chicago vince la seconda e poi distrugge gli avversari in gara 3, tenendoli a 54 punti, record negativo di ogni epoca. Tuttavia, nella notte successiva a questo evento, a poche ore dalla gara 4, Dennis Rodman ne combina una delle sue. Fugge senza avvisare nessuno e si presenta sul ring della NWOper accompagnare Hulk Hogan in un incontro, spaccando anche una sedia sulla schiena di un malcapitato, facendosi chiamare Rodzilla. Al rientro a Chicago Rodman fu ovviamente multato per il gesto, cosa che tuttavia non pregiudicò il suo gioco. Il Verme era una dinamo di energia pronta ad esplodere, e Phil Jackson capì più di chiunque altro che questi attimi di follia andavano assecondati, non criticati, come ci spiega lo stesso Rodman nel documentario. Il numero 91 dei Bulls dovette scappare dalle telecamere che lo inseguivano dopo quest’assurda sortita, rischiando di distrarre il gruppo, che ancora una volta si dimostrò più forte di tutto. Rodman difese alla morte nelle ultime 2 partite, portandosi a casa l’ennesimo titolo. Jackson ebbe ancora una volta ragione.
Il rito di Addio di Phil Jackson e dei Bulls
Dopo questo ennesimo trionfo, la cavalcata dei Bulls è finita. La squadra ha danzato il suo ultimo ballo e sono tutti pronti a dirsi addio. Jackson racconta di come sua moglie fosse un’assistente sociale specializzata nell’aiutare le persone a superare il lutto. Dunque decise di mutuare un rito che utilizzava la consorte ed attuarlo con i suoi ragazzi.
Portò tutti suoi giocatori in palestra, li mise davanti ad un bidone e chiese ad ognuno di scrivere su un pezzo di carta cosa quell’annata avesse significato per loro. Dopodiché ognuno avrebbe letto il proprio pensiero, per poi gettarlo nel bidone e bruciarlo insieme a tutti gli altri. Ciò che apparve su quei fogli non lo sapremo mai, ma Kerr ci confessa che MJ scrisse una poesia che toccò i cuori di tutti. Alla fine, quel campione a volte antipatico mostrò quanto amasse Chicago e i suoi compagni.
Quest’ultimo gesto rimarca l’unicità di Phil Jackson. Non è stato solo un allenatore, è stato una guida, un padre spirituale, un mentore e un padre. Tirò fuori il meglio da chiunque e venne a patti con il più terrificante animale a sangue freddo mai sceso su un campo da basket. Jordan probabilmente sarebbe divenuto in ogni caso uno dei più forti di sempre, ma senza il suo coach, forse oggi non avremmo alcuna The Last Dance.