Il 23 luglio 1993, nell’estate seguente al terzo titolo consecutivo dei Chicago Bulls e nel momento nel quale imperversavano le polemiche sul presunto problema di gioco d’azzardo di Michael Jordan, avviene la svolta più dolorosa della vita e della carriera di MJ. Suo padre, James, viene brutalmente assassinato mentre riposava in auto durante un lungo viaggio a scopo di rapina.
Il numero 23 dei Bulls aveva in suo padre l’unico vero punto di riferimento di tutta la vita, la “roccia”, usando le stesse parole di Jordan in The Last Dance, sul quale ha costruito la sua intera vita e carriera. Questo terribile evento incrinò ancor di più il legame tra Jordan e il basket. Michael era stanco, esausto dalle continue pressioni a cui era sottoposto. Il fatto che molti giornali in quel momento osarono addirittura speculare che il tremendo assassino di James Jordan fosse collegato al gioco d’azzardo del figlio, convinse MJ a lasciare il basket per dedicarsi al baseball, da sempre sogno di suo padre ed anche suo.
MJ si accasò ai Birmingham Barons e lì, lavorando sodo, con un’etica del lavoro che solo lui e pochi altri atleti oltre l’umana comprensione ebbero nella storia, riuscì a plasmare il suo corpo adattandolo ad uno sport totalmente diverso dal basket. Tutto questo a 31 anni, 14 anni anni dopo aver colpito la sua ultima palla con una mazza da baseball.
Quell’anno giocò una discreta stagione sul diamante mentre i suoi Bulls riuscirono comunque ad arrivare in finale di Conference, schiantandosi contro il muro rappresentato dai New York Knicks. In The Last Dance Michael ci racconta di come fosse contento che suo padre avesse visto la sua ultima partita di basket e di come fosse stufo di quel mondo nel quale era totalmente sommerso dalla pressione mediatica. Tuttavia, 18 mesi dopo il ritiro, MJ, anche a causa di uno sciopero dei giocatori di baseball, decise di tornare a giocare a basket e di scrivere definitivamente, il suo nome nella leggenda dello sport.
I’m back!- Le uniche parole che MJ scrisse sul comunicato stampa che raccontava del suo ritorno
Jordan, al primo match di ritorno dopo il ritiro, indossando la maglia numero 45 e avendo messo i calzoncini al contrario, si sentì nervoso, non riusciva a scendere dall’aereo. L’assenza di suo padre tornò fortissima a farsi sentire, ma comunque scese in campo, apparendo abbastanza fuori forma.
Il 23 era leggendario, il 45 è semplicemente forte – si diceva di lui in quel periodo
Non passò molto prima che Jordan rimise la sua vecchia canotta, si allenò in estate 4 ore al giorno mentre era anche impegnato sul set di Space Jam (Sembrava un vampiro, spiega Reggie Miller) e tornò anche più forte di prima. Dopo la morte di suo padre, MJ trovò in Gus, capo della sua sicurezza una figura patera, che lo seguiva ed incoraggiava ad ogni azione e momento. Fu uno dei motivi che accesero il fuoco dentro Jordan portandolo a vincere gli ultimi due titoli contro gli ostici Utah Jazz. Gus fu così importante nella seconda parte della carriera di Jordan che il numero 23 lo seguì come un figlio durante tutta la sua malattia che lo avrebbe portato alla morte.
Scottie Pippen, il più forte secondo violino della storia della NBA
Nel draft del 1987 i Chicago Bulls selezionano con la scelta numero 5, Scottie Pippen. Insieme a Michael Jordan creerà una delle coppie più forti mai scese su un campo da basket. Fido scudiero del suo numero 23 ma anche leader silenzioso ed emotivo. Scottie veniva da una famiglia poverissima e ci viene raccontato in The Last Dance come decise di firmare un contratto lungo e molto svantaggioso per lui. I Bulls difatti si assicurarono le prestazioni del loro numero 33 sborsando “solo” 18 milioni di dollari complessivi per 7 anni. Questo creò diversi malumori in quanto la dirigenza dei tori della città del vento non volle saperne di ritoccare la cifra, costringendo Pippen a minacciare di andare via da Chicago, cosa che poi non avvenne.
Pippen accettò sempre di buon grado il suo venire dopo Michael e di contribuire alla vittoria sebbene essendo sempre il secondo. Quando Jordan decise di lasciare il basket per la prima volta, tutte le responsabilità di leadership che aveva MJ, passarono sulle sue spalle. I Bulls giocarono un ottima stagione ed arrivarono in fondo dove, tuttavia, Pippen si macchiò di un errore che denotò la sua impossibilità ad essere un leader come MJ. Durante la serie di playoff contro i New York Knicks, con i Bulls sotto 0-2, nei secondi finali Phil Jackson disegnò uno schema nella quale la palla sarebbe arrivata nelle mani di Toni Kukoc e non di Pippen che si risentì delle scelta e si rifiutò di scendere in campo. Lo schema ebbe successo, i Bulls vinsero e il numero 33 dimostrò una mancanza di leadership che evidenziò ancor di più la differenza con quella di Jordan che l’anno prima lasciò il tiro della vittoria delle Finals a John Paxson.