Florian Schneider, co-fondatore del gruppo tedesco Kraftwerk, è morto all’età di settantatré anni, dopo una breve e sofferente battaglia contro il cancro.
Frequentemente la scomparsa di un uomo trascina quest’ultimo sotto le luci abbaglianti dei riflettori. Per una manciata di tempo, il defunto riesce a catalizzare l’attenzione del mondo intero, appassionati e non. È quasi come se la morte di un artista si rivelasse essere il momento giusto per mettere sul piatto della bilancia quella che è stata la sua arte, spinti da quel desiderio irrazionale di catalogare, controllare e quantificare che si annida nell’uomo. Quasi come se si volesse ad ogni costo definire un bilancio di una vita ormai conclusa, offrire un compendio, tracciare un’analisi. È sempre stato così. E sarà lo stesso anche per Schneider: anche la sua morte si trasformerà (anzi, si è già trasformata) in un’occasione per rispolverare l’operato musicale dei Kraftwerk, la band da lui fondata.
Il New York Times, in un articolo pubblicato verso la fine degli anni Novanta, aveva deciso di definirli con l’etichetta de I Beatles della musica dance-elettronica – un appellativo che, seppur possa apparire come un fardello pesante e fin troppo ingombrante, si mostra capace di trasmettere perfettamente la magnitudine dell’influenza che il gruppo di Düsseldorf ebbe sul panorama artistico dell’ultimo secolo. In mezzo secolo di carriera, infatti, i Kraftwerk sono riusciti a rivoluzionare il paesaggio musicale: pioniere di universi sonori che, senza di loro, non sarebbero mai stati originati, il gruppo tedesco è stato autore di album che si sono rivelati essere pietre miliari della musica mondiale, come Autobahn, Radio-Activity e Trans-Europe Express.
Un breve riassunto di quella che fu la storia dei Kraftwerk
I Kraftwerk sono stati a lungo definiti come la proiezione musicale della tecnologia che ci circonda. Le loro sonorità metalliche appaiono come voci di fantasmi provenienti da un futuro lontano, fatto di androidi, processi computerizzati, macchine fredde e insensibili. In altre parole, è come se il gruppo tedesco avesse plasmato il macrocosmo di Blade Runner prima che questo fosse dipinto da Ridley Scott. Tuttavia, nonostante tale universo cyberpunk abbia un notevole fascino, relegare i Kraftwerk ad una mera musica del futuro equivarrebbe a banalizzare la loro concezione artistica – non si sta parlando della massima traduzione sonora della razionalità mai concepita e nemmeno di una musica senza cuore, ma di un ibrido perfetto tra l’uomo e la macchina, un equilibrio inappuntabile di ragione e irrazionalità.
La storia dei Kraftwerk inizia più di cinquant’anni fa, nel 1968. Siamo a Düsseldorf, la materializzazione urbanistica dello spirito del Wirtschaftswunder, quell’età di fertilità economica che aveva interessato la Germania Ovest a partire dal secondo dopoguerra e che ha contribuito ad un improvviso incremento del tenore di vita nella regione. In questa moderna città, più distante dalla Cortina di Ferro che dal vicino confine franco-belga, Ralf Hütter e Florian Schneider si incontrarono quasi per caso: entrambi iscritti al Conservatorio “Robert Schumann Hochschule” di Düsseldorf, i due giovani erano attivi partecipanti della scena musicale sperimentale tedesca dell’epoca, la quale era stata etichettata dal settimanale inglese Melody Maker con il termine krautrock, traducibile con l’espressione musica cosmica.
Dopo aver militato negli Organisation, con il quale il duo registrò l’album Tone Float, nel 1970, Hütter e Schneider presero la decisione di fondare un gruppo, lo stesso gruppo che battezzeranno con il nome di Kraftwerk (in italiano, centrale elettrica).
Gli anni Settanta si rivelarono essere un periodo di continua evoluzione: terribilmente creativi, i Kraftwerk pubblicheranno sette album in un decennio, inaugurando il proprio fertile percorso con l’omonimo album (Kraftwerk, registrato durante il 1970). In tale lasso di tempo, la formazione del gruppo continuò instancabilmente a modificarsi, senza mai trovare una definizione stabile: Hütter e Schneider lavoreranno, infatti, con una mezza dozzina di altri musicisti. Non importava chi essi fossero, bastava che ci fossero. L’unica eccezione, l’unica figura costante in tali formazioni era rappresentata da Schneider, il quale si concentrava principalmente sulle composizioni per flauto, nonostante suonasse abilmente anche chitarra e violino.
A fianco dei strumenti musicali citati e provenienti dall’impostazione classica che era stata impartita loro tra le mura del conservatorio, quello che all’inizio continuava ad essere fondamentalmente duo decise di affiancare una vasta (e primitiva) gamma di dispositivi elettronici, i quali iniziarono a dominare la loro musica a partire dalla pubblicazione di Kraftwerk 2, rivelandosi essere una vera e propria rivoluzione.
L’attrazione per le sonorità elettroniche contraddistinse principalmente le creazioni di Ralf Hütter, il quale si dedicò a lungo allo studio di sintetizzatori e tastiere, avvicinandosi ad essi dopo aver perfezionato il pianoforte e l’organo, strumenti che lo avevano accompagnato fin dall’infanzia.
In seguito alla pubblicazione del secondo volume e con l’avvento del 1973, il gruppo tedesco si sottopose all’ennesima tappa del loro progresso di evoluzione: con l’apertura del loro personale studio di registrazione (il cosiddetto Kling Klang) e la registrazione di Ralf & Florian, i Kraftwerk abbandonano la caotica sperimentazione che li aveva caratterizzati – con la pubblicazione del loro terzo album, il gruppo iniziò finalmente a delineare il proprio stile, nel quale comparve per la prima volta un’imponente contaminazione elettronica. La volontà di aumentare l’impronta elettronica presente all’interno delle loro composizioni musicali costrinse i membri del gruppo a costruire e brevettare da sé gli strumenti utilizzati nella produzione delle loro ritmicità.
Il crescente incremento della missione pionieristica dei Kraftwerk portò ad un allargamento della formazione: al fianco di Hütter e Schneider, si presentarono Wolfgang Flür e Klaus Roeder, il primo esperto di percussioni e il secondo violinista e chitarrista. Con tale nuova formazione, i musicisti diedero vita a Autobahn (1974), forse la loro creazione musicale più conosciuta al grande pubblico, debutto di un suono nuovo, più disciplinato e che si rivelerà essere il loro marchio di fabbrica.
Senza ombra di dubbio, quindi, Authobahn fu l’album che plasmò maggiormente il futuro dei Kraftwerk, la loro intera carriera. Il termine delle registrazioni dell’album precedentemente citato marcò il momento in cui il gruppo tedesco terminò il proprio periodo di ricerca sonora: in quel momento, erano riusciti a formalizzare il loro fine ultimo. Ma qual era questa loro missione?
Come riscoprire il futuro nelle macerie distrutte del passato
Con il termine della Seconda Guerra Mondiale, erano davvero poche quelle nazioni che erano state costrette (o auto-costrette?) ad interrogarsi realmente in merito al proprio passato e, di conseguenza, a plasmare da zero una propria novella identità culturale che potesse essere perfetta sintesi tra l’eredità sepolta nelle macerie di un passato atroce e una serenità agognata per il futuro. La nazione più colpita da tale fenomeno di estraniamento e di successiva ricostruzione fu la Germania del Dopoguerra, una patria sconfitta, devastata e divisa. Tale esigenza si tradusse inevitabilmente nell’azione artistica della generazione tedesca che era cresciuta con l’incubo della guerra, quella generazione che potrebbe essere definita come generazione perduta. E, altrettanto immancabilmente, anche i Kraftwerk furono profondamente influenzati da tali incubi esistenziali, i quali si proiettarono con potenza sul microcosmo musicale di cui erano demiurghi.
Così, il suono dei Kraftwerk si trasforma nell’inno di una nazione desiderosa di trovare sé stessa, volenterosa di mantenere la propria tradizione, eliminandone quella che si era rivelata essere una radice malvagia, deteriorata. Così, i Kraftwerk tentano di mostrarsi come proiezione della Germania che era e che era stata.
La musica composta a partire dai due omonimi volumi è sempre stata definita dagli autori come una rivoluzionaria declinazione germanica della musica pop moderna. “La nostra è musica elettronica, certo” ha dichiarato Hütter. “Tuttavia, a noi piace interpretarla come una musica etnica proveniente dal cosmo industriale tedesco – è Industrielle Volkmusik. È una sonorità che ha a che fare con il fascino degradato di ciò che vediamo intorno a noi”. In altre parole, il co-fondatore del gruppo ha deliberatamente tracciato un profondo legame tra la contemporaneità del modernismo di cui erano fautori e quella tradizione che trovava le sue radici nel Romanticismo di matrice germanica. In tal senso, quindi, non sarebbe azzardato definire la musicalità kraftwerkiana come un’autentica ri-scoperta del Volk, come una ricerca della musica del popolo e per il popolo.
Attingendo dalle radici romantiche e dalle tradizioni popolari della loro patria martoriata, i Kraftwerk non sono solamente la proiezione musicale del futuro. I Kraftwerk sono la proiezione del futuro e del passato.
Dunque, l’intera micro-esperienza del gruppo musicale può essere circoscritta all’interno della macro-esperienza della nazione tedesca, all’interno della storia tedesca – una chiave di lettura che i musicisti di Düsseldorf avevano esplicitamente trasmesso al proprio pubblico attraverso l’emblematico verso “L’art politique / a l’age atomique” (tratto da Eletric Café, brano contenuto nell’omonimo album pubblicato nel 1986), così come attraverso una serie di scelte stilistiche perfettamente riconducibili a tale visione di ri-elaborazione della tradizione: la composizione polifonica a più voci (che potrebbe essere affiancata al folklore dello Sprechgesang, stile canoro affermatosi con l’avventto dell’espressionismo tedesco) o la ripresa della musica classica (celebrata attraverso il brano Franz Schubert, nel quali vengono ricreate melodie della storia tedesca attraverso l’ausilio della musica elettronica), per esempio.
L’atto del mixaggio “era sostanzialmente la continuazione di quella tecnologia musicale che si era sviluppata in Europa durante l’Illuminismo”: stando alle dichiarazioni dei membri del gruppo, infatti, l’obiettivo principale era quello “di trasferire il processo di pensiero dietro l’improvvisazione settecentesca ad un’interfaccia digitale”.
All’alba del crollo del Muro di Berlino, i Kraftwerk sembravano aver preso la tragica decisione di lasciare il palco, di allontanarsi da quella scena che erano riusciti immediatamente a innovare. Gli ultimi due album (Eletric Café del 1986 e The Mix del 1991) erano apparsi alla fine degli anni Novanta come il canto di un cigno ormai incapace di rappresentare quella nuova idea di Germania che aveva iniziato a sprigionarsi con l’avvento di una nuova Europa e di una nuova epoca. È quasi come se –dopo essere riusciti a re-incarnare la risposta all’ansia claustrofobica di trovare l’essenza della loro Germania, della loro generazione e, quindi, di loro stessi– la loro evoluzione non avesse più un senso, come se la loro musica fosse ormai priva di una missione.
Certo, l’eredità del gruppo di Düsseldorf non si esaurì con gli anni Novanta: la loro creatività diede altri due ultimi frutti, Tour de France Soundtracks e Minimum-Maximum, rispettivamente del 2003 e del 2005. Tuttavia, la musica popolare delle fabbriche (Folk Music of the Factories, così l’aveva definita David Bowie) sembrava aver concluso il processo di sprigionamento di quell’essenza industriale della nuova civiltà di cui i Kraftwerk si facevano testimoni.
I Kraftwerk sono l’anno zero della musica come la conosciamo oggi
Non è azzardato affermarlo: i Kraftwerk, questi alieni provenienti da chissà quale galassia lontana, hanno anticipato il loro futuro, il nostro presente. O forse, con la loro fusione di uomo e tecnologia, l’hanno inventato.
La band tedesca ha dato i natali ad una miriade di generi, in primis alla musica elettronica. Il genere R&B, così come le sonorità pop, è stato enormemente influenzato dalle musicalità di questa inedita faccia di Germania Est. Le radici della musica techno sembrano affondare nel terreno fertile della Düsseldorf dell’epoca. “Avevo casualmente pescato una copia di Autobahn: (…) è stata l’energia più ipnotica che io abbia mai sentito” ha dichiarato Charles Johnson, meglio conosciuto come The Electrifying Mojo. “I Kraftwerk sono per la musica elettronica contemporanea ciò che i Beatles e i Rolling Stones sono stati per la musica rock contemporanea”, ha perfettamente riassunto Moby, il musicista statunitense.
In poche parole, l’apparente insensatezza romantico-industriale dei Kraftwerk rappresenta l’anno zero della musica pop come la conosciamo oggi.