Affrontare con serenità il quarto decennio, e tirargli uno schiaffo morale.
Durante l’ascolto di un brano di Ghemon, ci si ritrova più di una volta a cercare di capire come facciano quei pochi minuti di musica ad essere così perfettamente bilanciati. L’artista campano ha sempre cercato e trovato un bell’equilibrio tra tutte le sue influenze. Rapper alle origini, pop per vocazione e con un gusto notevole per il soul e il jazz che in Italia rimangono di nicchia e riescono a girare soltanto nei club, con poche eccezioni; con l’innata capacità di saper dosare ogni ingrediente. Scritto Nelle Stelle, il suo ultimo disco uscito il 24 aprile 2020, ed è la sua risposta alla chiamata del destino.
Questo disco si presenta come il possibile lavoro della maturità di Ghemon: nella copertina da foto profilo di Facebook, nei titoli dei pezzi molto più concreti e innamorati e anche nel titolo del disco; nessuno di questi elementi è sufficiente per giudicare un album senza ascoltarlo, a maggior ragione se dietro c’è Ghemon che pesa ogni nota e ogni parola. E se gli avessero manomesso la bilancia?
Non è più il tempo degli eroi, e Ghemon non lo è mai stato. Per fortuna.
Il ragazzone di Avellino lo ha dimostrato con il 64 Bars registrato ai Red Bull Studios: ha tutte le carte in regola per rappare, quando e come vuole.
Ghemon è cresciuto musicalmente attraverso la cultura hip hop, non soltanto attraverso il rapping: non ha mai fatto hip hop, è stato hip hop con la giusta intuizione, attento a tutti i cugini musicali del rap. E il suo percorso musicale giustifica in tutto le sue influenze, guidato dalle vicende di vita personale che Gianluca (“non mi conosci? Man, Googola!”) non ha mai nascosto, anzi, ha sempre difeso con onestà.
Se il disco non stupisce, quindi, significa che Ghemon non riesce più a farsi stupire dalla vita? Non possiamo pretendere di psicanalizzare una persona per capire che disco ha fatto, perché se l’equazione fosse così semplice saremmo tutti psicanalisti e forse nessuno farebbe più musica, però possiamo immaginare che cosa sia successo, partendo da quello che succede quando premiamo “play”. E cosa succede con Scritto Nelle Stelle? Si abbassano i toni e cala l’aggressività; ora Ghemon riesce a sentire il rumore che fanno le stanze della casa quando ti sei appena svegliato e la tua compagna sta ancora dormendo. Non l’immaginario da icona della strada tostissima e senza ripensamenti, che esiste soltanto sulle copertine dei mixtape dei primi anni Duemila.
“Ogni lasciata è persa” , dice Ghemon stesso; ed è giusto così.
Il sostegno debole dell’album è quello che sarebbe dovuto essere il suo pilastro: le strutture di un certo pop romantico e molto “italiano”, che sono state svuotate dell’attitudine aggressiva di Mezzanotte (il precedente lavoro di Ghemon, uscito nel 2017). Diventano così una mensola da ridipingere e riempire di soprammobili; ma nei brani in cui non ci sono troppi soprammobili queste strutture diventano una tavola di legno sulla quale possono appoggiarsi le parole. Ravvivate ogni tanto da qualche bomboniera di quelle strane del battesimo di qualche tuo lontano congiunto.
Poi ci sono altre mensole, arredate con passione e un po’ di genio: forse la Buona Stella ha guidato Ghemon verso la strada che lo aspettava, il pop fatto bene. I piccoli rischi presi su ogni brano nella maggior parte dei casi ripagano, riuscendo a fornire il tiro giusto. La svolta finale del disco è un gran pezzo, e non soltanto perché dall’intro sembra uscito fuori da Mezzanotte.
Il fatto che la persona e il personaggio di Ghemon quasi coincidano ha sempre fatto bene ai testi, ma i quarant’anni che si avvicinano hanno rischiato di intrappolare le parole in un loop di paranoie da rimpianto dell’adolescenza, perché forse è vero che l’artista è l’immaturo per eccellenza. La soluzione è essere onesti, e far scavalcare l’artista dalla persona. Più di una volta l’ossessione di Ghemon nel disco è la sveglia che suona e lo riporta nella realtà: “Vesto come un ragazzino ma non ho più l’età”. Possiamo rispondere alla fatidica domanda dell’inizio: se qualcuno gli ha manomesso la bilancia per dosare le parole, è stato banalmente il tempo che è passato. E vagli a dire di non passare.