Sul cinema cinese ci si deve soffermare con estrema attenzione, perché dopo quella coreana è forse, attualmente, l’industria più interessante. Parlando di Cina si deve per forza parlare anche di politica, perché inevitabilmente influisce su ciò che arriva in sala. Purtroppo molto del cinema per il grande pubblico risente eccessivamente dell’ingerenza del regime, che punta sempre più spesso all’autoesaltazione, come nel caso di The Wandering Earth, pubblicizzato in patria come il primo blockbuster fantascientifico.
La “quinta generazione” è ormai agli sgoccioli, con ormai quasi solo Yimou Zhang che riesce ad essere rilevante, anche se sempre ben distante dai tempi di Lanterne rosse o di Vivere!. Gli anni dell’impegno politico sono finiti da tempo e il regista non ha saputo più replicare (almeno all’estero) al grande successo di un film come Hero.
Quello che invece è più interessante, e su cui vogliamo soffermarci, è la produzione indipendente e la “sesta generazione” di registi cinesi. Con la fine della “quinta generazione” (fra cui lo stesso Yimou e Kaige Chen), spesso identificata con i fatti di Piazza Tiananmen del 1989, nasce una nuova leva di autori, che girano spesso film con materiale di fortuna e con budget quasi nulli. Se la quinta generazione, nei suoi anni d’oro, criticò soprattutto il periodo della rivoluzione culturale maoista, i nuovi registi hanno spesso uno sguardo estremamente critico verso la Cina contemporanea e le riforme denghiane, concentrandosi sulle ingiustizie, la povertà e i malfunzionamenti di un Paese enorme e sovrappopolato.
Zhangke Jia e la “sesta generazione”
Fondamentale è stato (ed è ancora oggi) il lavoro di un regista come Zhangke Jia, pilastro e simbolo del cinema della sesta generazione. Film come Platform, Still Life, ATouch of Sin e il recente Ash is Purest White hanno mostrato autenticamente la vita nella Cina di oggi. O ancora Ye Lou, Bing Wang e Xiaoshuai Wang hanno tutti ottenuto grandi riconoscimenti nei festival esteri, rimanendo sempre però piuttosto nascosti dal grande pubblico. E probabilmente lo resteranno a lungo: il loro cinema non è facilmente digeribile dal pubblico occidentale come quello coreano, tanto meno da un pubblico generalista.
Esistono però delle eccezioni, come Il lago delle oche selvatiche di Yinan Diao, passato nei cinema italiani a febbraio. La progressiva apertura alla cultura occidentale ha aperto nuove possibilità, sia per un cinema più popolare che per quello autoriale. E fra gli autori dobbiamo evidenziare il caso Gan Bi, appena trentenne, passato nella sezione Un certain regard di Cannes con un film più unico che raro nel panorama cinese: Long Day’s Journey Into Night. O, ancora, lo sfortunato caso di Bo Hu, autore suicidatosi dopo un esordio di grande impatto con An Elephant Sitting Still.
In conclusione, non ci aspettiamo che il cinema cinese possa fare a breve un exploit simile a quello coreano, ma resta un Paese da tenere d’occhio, soprattutto per il suo lato più autoriale.