La notte ha divorato il mondo, epidemia e quarantena nell’horror Amazon Prime Video|Recensione

Dominique Rocher nel suo esordio alla regia con "La notte ha divorato il mondo" mostra come con poco si possa rinnovare, in parte, il genere zombie

una scena de La notte ha divorato il mondo
La notte ha divorato il mondo
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Al posto di 28 giorni ci vuole, in questo caso, solo una notte perché l’ennesima riproposizione di infetti zombi prenda forma nel mondo, conquistandolo. Eppure, il francese Dominique Rocher nel suo esordio alla regia con La notte ha divorato il mondo (La nuit a dévoré le monde, 2018) mostra come con poco si possa rinnovare, o, almeno in parte, creare qualcosa di ottimo nell’ambito di questo genere ormai oltremodo abusato, rielaborando in chiave minimalista e zombesca l’intramontabile Io sono leggenda di Richard Matheson.

La notte ha divorato il mondo è su

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Trama

Sam finisce controvoglia ad una festa a casa dell’ex-fidanzata. In verità è lì con l’intento di recuperare la sua collezione di cassette musicali, lasciate nella sua stanza. In attesa che la festa finisca Sam si addormenta. Quando si sveglia la mattina dopo, scopre che tutti gli ospiti si sono trasformati in zombie; loro come il resto della popolazione parigina, con gli ultimi sopravvissuti che stanno morendo all’esterno, riversandosi in strada. Sam rimane bloccato, in assoluto isolamento, nel condominio dell’ex-fidanzata, con scorte di cibo e un kit completo di sopravvivenza. Ma quanto a lungo potrà sopportare il silenzio e la solitudine?

Film minimalista ambientato quasi interamente all’interno di un condominio di Parigi; fuori l’orda di zombie è silenziosa, disordinata, attratta dal suono e dal movimento. Tuttavia, essi fanno solo da contorno al vero argomento del film che è la solitudine, la reclusione. Qualunque avvenimento trama contro una parvenza di socialità per il protagonista in questo atipico film, dove l’isolamento forzato lo distaccherà piano piano dalla realtà, costringendolo a crearsi un mondo proprio dove rifugiarsi e sopravvivere. Un mondo nel quale la compagnia di un gatto diviene vitale, o dove parlare con uno zombie afono rinchiuso nell’ascensore, diviene normale.

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Sam non cercherà mai di entrare in contatto con il mondo esterno, né tenterà di capire perché tutto ciò stia accadendo, non trovandovi nemmeno il motivo, convinto che il mondo fuori sia finito. Libera piano per piano la palazzina, cerca scorte, prova ad adattarsi costruendosi una sorta di rifugio impenetrabile: qui il protagonista si muove al chiuso e nello stretto, piuttosto che all’aria aperta e nel largo, grazie anche al sapiente ed originale uso degli spazi da parte del regista.

Questo spazio diviene inevitabilmente anche una trappola per Sam, una prigione che con il passare del tempo lo destabilizzerà, privandolo in parte della sua umanità e della sua voglia di vivere a causa della monotonia e della solitudine, attraverso incubi e disillusioni. Tutto è intimo, cameristico, con un lavoro realizzato attraverso vari stratagemmi intelligenti, che lo porterà a sopravvivere fino all’incontro inaspettato con una ragazza, Sara, che spinge il protagonista a trovare una via alternativa, un nuovo obiettivo con il quale confrontarsi.

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Ed è forse questo ciò a cui punta il film nel finale attraverso i tetti di Parigi: infatti, l’espediente del contagio è uno spunto per riflettere sulle forme di solitudine partorite dall’eccesso di socialità, imposta dalla collettività contemporanea, e sulla voglia e la necessità di cercare posti e tempi migliori di quelli in cui si abita e in cui ci si ritrova a combattere. Un film che si adatta perfettamente al momento che stiamo vivendo nel mondo, causa Covid-19, dove noi stessi ci troviamo costretti a costruire e coltivare il nostro “harem” personale, fatto di libri, film, musica o di qualsiasi cosa possa farci sentir bene, estraniandoci da tutto e da tutti quelli che ci circondano.

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