L’album della definitiva affermazione dei Depeche Mode
Il settimo album dei Depeche Mode, dal titolo Violator, è il culmine di un percorso musicale preciso. Un percorso che, per tutti gli anni ’80, ha condotto il gruppo inglese dai meandri più edonistici del syhntpop sempre verso sonorità alternative e oscure. Una progressiva immersione in suoni cupi, inquietanti, che giunti a questo punto comprendono tranquillamente influenze techno ed industrial. Questo però pur conservando la natura “new wave” di partenza. I due singoli celebri del disco, Personal Jesus (un rock and roll stile western) ed Enjoy the Silence, rappresentano ottimamente la tendenza attuale del gruppo. L’alchimia tra il songwriting di Martin Gore, la ormai caratteristica voce di Dave Gahan e il contributo degli altri strumentisti (Alan Wilder e Andrew Fletcher) fanno il resto.
Con Violator, i Depeche Mode emergono come uno dei pochi gruppi inglesi di ispirazione post-punk/new wave ad essere sopravvissuti al decennio precedente. Meglio ancora: i quattro sono rimasti una presenza fissa nelle classifiche per quasi dieci anni. E questo senza dover rinunciare al successo per inseguire la perfezione artistica come i Talk Talk, ma senza neppure acquietarsi su canzoni pop generiche e ripetitive come gli Spandaud Ballet. Al contrario, la loro musica è andata inspessendosi, fino a costituire uno stile caratteristico, inimitabile, che è loro proprio. All’alba del decennio del rock alternativo, del grunge, della techno, del rap e del britpop, i Depeche Mode emergono come la realtà musicale inglese più forte in circolazione, se si eccettuano altri gruppi della stessa area, pochi (come i Cure), e gli Stone Roses, praticamente l’unica band veramente importante nel rock inglese tra il 1989 e il 1993.
Da qui in poi, i Depeche Mode diventano delle vere leggende del rock e della musica
Tutto lo spessore dello stile dei Depeche Mode si ritrova tanto negli altri singoli celebri dell’album (Policy of Truth, World in My Eyes), quanto nei momenti meno noti ma assolutamente da riscoprire (Halo, Clean, Blue Dress). Ogni canzone risponde all’estetica da sempre provocatoria ed oscuramente inventiva della band, riprendendo in questo senso, alla lontana, il discorso del punk, ma nel contempo mostrando una voglia di innovazione che molte band loro coeve hanno, nel 1990, ormai perso. L’affacciarsi dei Depeche alle sonorità rock, prominenti per tutti gli anni ’90 e alle quali lasceranno ben più spazio negli album successivi, qui è ancora limitata, ma si può già intravedere. Non sono tanto le chitarre (comunque ben presenti, com’è noto, in Personal Jesus) a segnalare questa tendenza, quanto le sonorità profonde, schive, guardinghe, figlie di una incessante ricerca strumentale.
In questo senso, però, Violator, come in qualche modo segnalato già dal titolo, rappresenta una sorta di finale passaggio oltre un confine: terminati gli anni ’80, i Depeche non devono più fingere di fare musica “da festa”, perché nessuno la fa più. Il mondo all’inizio degli anni ’90 è ben diverso, e la musica del gruppo, un synthpop ultra-datato ma allo stesso tempo stranamente all’avanguardia, ne costituisce la colonna sonora ideale. Da qui in poi, i Depeche Mode cessano di essere solo una delle tante band uscite in qualche modo dal calderone eterogeneo della new wave, e diventano delle leggende del rock e della musica. Ancora oggi, se c’è da spiegare a qualcuno perché i Depeche Mode sono così importanti, è sufficiente fargli ascoltare Violator: un album che si spiega da sé.