Un’altra perla di elettronica dolce e colorata da Four Tet
Quello di Four Tet (Kieran Hebden) è un nome che è ormai una garanzia da molti anni. Pur essendo il musicista sulla scena da un bel po’ di tempo (il suo primo album come Four Tet risale infatti al 1999), il suo stile non si dimostra mai consumato o banale. Anzi, più passano gli anni e più, con le nuove tecnologie e le nuove idee che circolano ovunque nel mondo della musica, l’artista sembra migliorare le sue produzioni. Nella sua musica c’è una sorta di corteccia, di durezza, che viene via strato dopo strato, album dopo album, lasciando sempre più spazio alla pura ispirazione e alla condensazione dei suoni ricercati. Suoni che prendono forma in maniera sempre più chiara, precisa, cristallina. Il genere minimalista/IDM affrontato da Four Tet è fatto di canzoni costruite su schemi precisi, e che in quanto tali non lasciano spazio a nulla di indesiderato.
L’artigianato elettronico di Four Tet è giunto a livelli di perfezione sublime, di cesellatura fine e composizione diretta. Infatti, la maggior parte delle canzoni rispondono a criteri di semplicità melodica che ne decidono la riuscita al di fuori di qualunque inutile complicazione tecnica o armonica. Ogni canzone, cosa straordinaria (ma ordinaria per questo artista), suona ricreando esattamente le immagini evocate da ciascun titolo. Come se Four Tet suonasse dipingendo, o viceversa. In questo senso, Sixteen Oceans è un disco di elettronica solo per quanto riguarda il genere effettivo di partenza. Perché Four Tet guarda chiaramente oltre le premesse dello stile di appartenenza, apprestandosi, come i migliori, a comporre semplicemente “musica”: ispirata, colorata, eclettica. Per tutti. E in questo senso, questo album non sfigura affatto a fianco di tutti i lavori più classici dell’artista. Ne costituisce, anzi, l’ideale seguito.