Aprendo Città Sommersa, libro di Marta Barone edito da Bompiani e tra quelli proposti per il prossimo Premio Strega, si ha come l’impressione di avere tra le mani un’opera di dickensiana memoria: come in David Copperfield, il punto di partenza di Città Sommersa è la registrazione di una nascita. Innanzitutto — scrive Marta Barone nella prima pagina del suo romanzo — sono nata.
Una verità incontrovertibile, che supera i limiti della finzione narrativa e si trascina nella sfera del reale, sottolineando in una manciata di righe la caratteristica e peculiare struttura con cui Città Sommersa si presenta al lettore. Un libro che non è né biografia né un memoir, ma che in qualche modo si posiziona nel mezzo, dove ricordi e ricerca vanno nella stessa direzione e l’autrice è sia voce narrante, ma anche una poetica e suggestiva versione di Indiana Jones che va alla ricerca di informazioni, visi sgranati in vecchi documentari, voci da rincorrere tra le pagine della Storia.
Città Sommersa, la trama
Città Sommersa inizia con un peregrinare. Un viaggio tutt’altro che metafisico, dal momento che la narrazione prende il via con la bellissima immagine di una ragazza che scopre una nuova città, che si smarrisce tra le vie di una metropoli che è insieme rifugio e scoperta, ma anche scenario di solitudini e momenti di fragilità.
Cammina, Marta Barone. Cammina per Milano e, allo stesso tempo, cammina all’interno di quelle che, con una prosa magnifica, definisce il rassicurante arcipelago delle cose di sempre. Ma è in realtà un vuoto improvviso ad accendere il fuoco che condurrà alla realizzazione di questo splendido romanzo.
Leonardo Barone, padre dell’autrice, muore. Non in maniera inaspettata, non come uno di quei colpi di scena che riempiono moltissimi tipi di affabulazioni. Muore, semplicemente, sebbene non ci sia mai niente di troppo facile nel dover affrontare la morte o l’idea di essa.
Da qui, con tempi lunghi che la narrativa può far somigliare a un battito di ciglia, per la ragazza inizia un altro viaggio, un altro cammino. Quello alla scoperta del padre, dell’uomo che L.B., diventato personaggio e quasi creatura filiforme, era stato prima di lei, prima di essere un padre, prima di essere la persona che l’autrice pensava di conoscere.
Un uomo accusato di partecipazione a banda armata, vicinissimo al partito di sinistra. Sfuggevole, a volte duro con la figlia, a volte menestrello di serate piene di echi e di contrattazioni. Un uomo, prima ancora che un padre.
Città Sommersa parla di questo: di una ragazza che cerca l’ombra del padre e dell’uomo prima di lui, finendo con il raccontare una storia quasi declinata al futuro anteriore, dove lei è narratrice e personaggio, voce narrante e, in qualche modo, deus ex machina che permette ai ricordi di sfuggire all’oblio.
Città Sommersa, la storia di un uomo
Ogni essere umano è di solito spinto a pensare ai propri genitori come a degli esseri umani fatti e finiti, come se non esistessero prima della nostra nascita, come se fosse proprio la nostra nascita a far nascere anche loro. Tendiamo quasi sempre ad annullare il loro passato, la loro storia. Dimentichiamo, a volte, che sono stati giovani anche loro e come tali capaci di amare, sbagliare, fare delle scelte. Diventare protagonisti della loro storia.
Per l’autrice Leonardo Barone era l’uomo con cui viaggiava nelle cuccette del treno, quello che ha divorziato da sua madre quando lei era ancora bambina. Un uomo pieno di carisma, sempre dalla parte degli oppressi. Un padre che dalla Puglia si è trasferito a Roma prima e a Torino poi. Un uomo complicato, coi suoi silenzi e le sue parole gettate ad un uditorio che sembrava sempre pronto ad ascoltarlo. A lasciarsi affascinare.
Ma la morte, di punto in bianco, getta le basi per un altro tipo di consapevolezza. Durante una messa in ordine domestica l’autrice si imbatte in vecchie carte che restituiscono un’immagine diversa di quell’uomo. Un uomo che aveva corso con il mantello della notte sulle spalle e sangue non suo a macchiargli la coscienza, forse per sempre. Un uomo che era stato protagonista della Storia, quella con la S maiuscola, che si imprime sui giornali e lascia un’eredità di consapevolezza che non sempre viene utilizzata.
Leonardo Barone smette di essere un uomo che sua figlia avrebbe voluto conoscere meglio: diventa L.B., un’entità quasi, una creatura sfuggente da inseguire attraverso racconti di altre persone, in una vera e propria caccia al tesoro dove la X non segna una cassa di dobloni, ma l’esistenza sbiadita di un uomo, le versioni di quello stesso individuo attraverso un numero imprecisato di lenti focali.
Ecco, Città Sommersa è la storia di un uomo. Meglio, è la ricerca dell’ombra di un uomo che si pensava di conoscere. Tuttavia, attraverso un progetto che voleva essere personale e intimo, una danza inattesa coi propri dubbi, Marta Barone allarga il suo spettro d’azione. La storia di suo padre diventa la storia collettiva dell’Italia degli anni ’70, del Pcim-l, delle lotte di partito, delle fabbriche e degli attentati, i colpi sanguinosi.
In questa commistione tra ricordi autobiografici e grandi teatri della Storia, Marta Barone ricorda quasi Irène Némirovsky, proprio per questa sua commistione tra l’individuo e la Storia, tra la famiglia e i documenti seppelliti chissà dove.
Narratrice e protagonista
Ma Città Sommersa è anche la storia di una ragazza. Per quanto L.B. sia l’argomento principe di questo romanzo, il suo cuore è senz’altro da ricercare in questa ragazza innamorata di una Torino che si fa, appunto sommersa, quando comincia a cercare luoghi familiari ammantati dello spettro dei giorni perduti del padre.
La Marta Barone che emerge dalla lettura è un essere in divenire: mentre L.B. si fa concreto con uno sguardo al passato, Marta Barone è messa a fuoco quando arriva a quel futuro tramutato ormai in presente. È come se, per parafrasare Vladimir Nabokov, nel cercare di restituire a una ragazzina la presenza del padre, Marta Barone abbia trovato un modo per rendere maestoso ciò che era comune, rendendo comune ciò che invece appartiene alla conoscenza collettiva. E tra questi due vertici c’è lei, che inizia questo libro camminando, alla ricerca di L.B., anche quando ancora non lo sa. E alla fine eccola di nuovo, ancora una volta in cammino. Perché stavolta il viaggio non è più guardare verso il passato, ma guardarsi la punta dei piedi e vedere fin dove ci ha condotto e ancora ci condurrà il cammino.
Tutto ciò reso possibile da una prosa efficace, algida e bellissima, che riesce a danzare tra vari generi facendola sembrare una cosa facile, quando invece è la prova incontrovertibile della presenza di una creatura tanto sfuggente come quelle che abitano il passato: il talento.
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