Per quanto riguarda gli LFO, non c’è da sbagliarsi: la loro non è musica elettronica da ballare, a meno che non siate sotto ecstasy in una discoteca underground a inizio anni ’90. No, quella degli LFO è musica da ascoltare, e con attenzione, anche. Le sonorità sono figlie dell’ascetismo della musica industrial, e i ritmi poco sincopati e ricercati sono lontani parenti del synthpop anni ’80. In quattordici tracce e al loro primo lavoro in studio, Mark Bell e Gez Varley compongono un capolavoro avveniristico fatto di idee melodiche sviluppate in tracce relativamente brevi, che sostituiscono i tipici “dance mix” di dieci minuti e agganciano subito l’ascoltatore all’amo. Una volta fatto ciò, lo trascinano senza stancarlo per tutti i 55 minuti del disco, che trascorrono per intero senza che nemmeno ce ne si accorga.
Lo stile è minimale, e si può già parlare di IDM (Intelligent Dance Music) ante-litteram, in un’epoca nella quale l’elettronica è quasi esclusivamente sinonimo di divertimento spensierato da club. Difficile scegliere una canzone migliore, perché tutte quante riportano suoni accattivanti, pattern di note facilmente memorizzabili e poi riconoscibili, e carattere proprio. In effetti, Frequencies non pretende di essere più che un album techno, e si propone con una semplicità disarmante che coniuga, nei fatti, il titolo del disco al nome stesso del gruppo (low-frequency oscillation). Se dovessimo comunque fare dei titoli, ci soffermeremmo su LFO, Simon from Sydney, Nurture, Freeze, Tan Ta Ra, Love Is the Message. Un lavoro, in sostanza, questo Frequencies, che è adatto ai neofiti, in quanto si presenta in tutta la sua essenza, e non pretendendo di essere approfondito o capito. Funziona già così com’è, alla perfezione.
6. The Prodigy – The Fat of the Land (1997)
Storicamente i Prodigy si sono sempre proposti come gruppo volutamente aggressivo, e trasgressivo, per non dire violento. Il fulcro della formazione, composto da Liam Howlett, Maxim Reality e naturalmente il compianto Keith Flint, unisce l’estetica techno ad una volontà distruttiva e anarchica quasi punk. Parlano da sole canzoni come Smack My Bitch Up, Firestarter, Breathe, Serial Thrilla. Questo è il modo nel quale i Prodigy si distinguono dai proprio colleghi dell’epoca: da loro si sa che ci si può aspettare una musica intemperante, forte, quando non direttamente anti-sistema. I video, che consentono ai due vocalist di caratterizzare ulteriormente l’immagine “punk” del gruppo, fanno naturalmente la loro parte.
Nel disco, però, non trova spazio solo la voglia di distruzione sonora. Diverse canzoni, infatti, si propongono in maniera ben più riflessiva e ricercata del previsto. Agli ospiti (Kool Keith, Crispian Mills dei Kula Shaker, Saffron dei Republica, Matt Cameron dei Soundgarden) fanno da specchio le diverse strade esplorate nelle canzoni meno note del disco. L’hip hop in Diesel Power, la psichedelia in Narayan, il rock and roll in Fuel My Fire (cover delle L7). Prova, se ce ne fosse bisogno, che i Prodigy, nella persona specialmente di Howlett, vedono ben oltre la loro stessa immagine, e la loro nomea (già ben consolidata, a questo punto) di gruppo anti-conformista. La musica c’è, sotto tutto questo, ed è composta con una perizia e una visione d’insieme innegabili.
5. The Chemical Brothers – Dig Your Own Hole (1997)
Ed Simons e Tom Rowlands sono già più o meno leggende dell’elettronica inglese, quando Dig Your Own Hole arriva a dare seguito al già fortunato Exit Planet Dust (1995). Un nuovo, azzeccatissimo album come questo, non può che cementarne lo status, consacrandone il nome tra i maggiori nella storia dell’elettronica. I Chemical Brothers mescolano molto ecletticamente suoni house, techno, funk, rock, psichedelici e puramente strumentali, per creare una musica composita e sfaccettata. Le loro canzoni trovano ritmi semplici e idee dirette, e vi costruiscono sopra un edificio sonoro decorato da suoni sparsi e deviazioni rumoristiche che ne fanno quasi dei piccoli film a sé stanti.
Nel disco ci sono i pezzi digeribili e accattivanti (Block Rockin’ Beats, Setting Sun, con Noel Gallagher, Where Do I Begin, con Beth Orton dei Portishead) e quelli lunghi e dispersivi. Su tutti, in quest’ultima categoria, trionfa The Private Psychedelic Reel, un riassunto di tutta l’arte di cui sono capaci i Chemical Brothers. Ci sono però anche gli otto minuti di Elektrobank, o la delicata e intrigante Lost in the K-Hole. in Dig Your Own Hole, convivono alla perfezione le due anime dei Chemical Brothers: quella più istintivamente melodica, tesa ai suoni di moda e alle classifiche, e quella più improntata alla sperimentazione e alla ricerca musicale fine a sé stessa. Il risultato è un’elettronica per tutti, che non richiede di essere capita quanto piuttosto di essere goduta.