Il rilancio dei franchising è una pratica, più o meno discutibile, che sta caratterizzando questo periodo storico cinematografico. Si potrebbe indagare cosa ci sia dietro questa volontà che, tra remake e reboot, risulta essere quasi sempre fallimentare. Rari sono i casi in cui l’effettivo rilancio riesce a centrare il segno. In questo immenso calderone, si inserisce oggi anche The Grudge, diretto da Nicolas Pesce e con Sam Raimi alla produzione.
Si ripete sotto altra forma l’esperimento del 2005 in cui Shimizu attraversò l’oceano per portare negli Stati Uniti la sua creatura, Ju On. Dalla televisione al direct to video giapponese, con anche un sequel. Fino ad oggi che arriviamo all’ottavo film su The Grudge.
Ci pensò Gore Verbinski a sdoganare il J-Horror con il suo remake di The Ring, nel 2002, americanizzando (si passi il termine) l’estetica orientale che caratterizza la particolare trilogia Ringu. Raramente questi remake a stelle strisce riuscirono a sollevare consensi. Salvo qualche mosca bianca, il risultato è sempre stato abbastanza deludente, come i vari The Cell, Pulse e così via.
Con il volto di Sarah Michelle Gellar, arrivarono i primi due The Grudge. Con risultati ben poco esaltanti giacché troppo forzati ad unire due tipologie estetiche ben diverse tra loro. Ci riprova ancora Raimi circa quindici anni dopo, affidando però la regia a Nicolas Pesce, già autore di apprezzabili esperimenti come The Eyes Of My Mother e Piercing. Tuttavia, la maledizione di Kayako, colpisce anche lui. Forse comprensibilmente offesa per la sua quasi totale assenza nel film.
Si parte nel 2004 in quel del Giappone. Qualche minuto ed ecco vedere i due iconici personaggi della saga di Shimizu, Kayako e quell’infernale bambino che tante persone fece saltare dalle poltrone. Dopo il breve reminder circa la maledizione, sulla falsariga dei film orientali originali, arriviamo negli Stati Uniti. Luogo in cui la maledizione si è trasferita.
Il circolo vizioso e maledetto di Kayako è impossibile da distruggere, al punto che un’intera famiglia ha infestato un’altra casa. Come una muffa stagnante, la maledizione Ju On ha infestato la mente di chiunque abbia messo piede lì dentro.
In questo The Grudge troviamo tre storie, in cui il presente delle indagini, capitanate dall’Andrea Riseborough vista in ZeroZeroZero e il depresso detective interpretato da Demián Bichir, ed un doppio passato, si mescolano in continuazione. Il fil rouge che le unisce è ovviamente un’indagine del passato che ritorna sotto forma di un cadavere rinvenuto tardivamente. E con lui, l’indirizzo appuntato della maledetta magione.
Senza svelare ulteriori dettagli, The Grudge presenta molti problemi. Sebbene gli intenti di voler rilanciare una saga con questo sequel/reboot andrebbero premiati, il risultato non è del tutto soddisfacente. In primo luogo, più scontato ed emblematico, il completo distacco dall’iconico villain originale. Così come la Samara di The Ring, il fantasma dai lunghi capelli, vera protagonista della saga, anche Kayako rappresenta a suo modo l’universo di The Grudge, inteso nel suo insieme. E questa assenza pesa non poco sulla costruzione del film.
Inoltre, l’alternanza di queste tre linee temporali è forse la principale causa che non permette di empatizzare con nessun personaggio coinvolto. Anzi, i momenti drammatici risultano fuori luogo, come inutili diluizioni temporali.
La personificazione della maledizione non c’è più, dunque. Quel che rimane è solo la menzionata maledizione che si riduce a fantasmi vendicativi. E una contaminazione noir che resta irrisolta così come i due detective protagonisti, apparendo quindi completamente futile ai fini della trama. Una trama che risulta fin troppo confusionaria nel suo essere suddivisa, esattamente come nei vecchi film. Con la differenza che una classica suddivisione in capitoli accompagnava i precedenti The Grudge.
Passando dal lato più pragmatico di The Grudge, troviamo quella che forse è la pecca più grande del film: l’abuso di cliché. La regia di Pesce non osa come i suoi precedenti film, crogiolandosi nella banalità. Salvo un paio di scene ben fatte, per gran parte del film la prevedibilità regna sovrana. E ogni momento jumpscare diventa banale nella suo essere scontato.
In conclusione, il risultato finale del film non esaurisce alla perfezione gli intenti di rilancio. Sebbene ci siano buone intuizioni visive, legate principalmente alla bravissima Lin Shayne, la medium di Insidious, The Grudge soffre fin troppo l’improbabile contaminazione noir e la forsennata alterazione dei vari piani temporali. Un’occasione persa in cui forse era meglio provare una nuova idea piuttosto che il rilancio di una saga che non ha mai avuto fortuna.
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