Arriverà il 21 Febbraio su Amazon Prime Video Hunters, nuova serie che vede tra i protagonisti Al Pacino e il Logan Lerman lanciato dalla saga di Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo. La serie è prodotta, tra gli altri, da Jordan Peele, regista ormai affermato dopo i successi di Scappa – Get Out e Noi.
La trama di Hunters
Composto da dieci episodi con una media di sessanta minuti di durata, Hunters racconta di Jonah Heidelbaum (Logan Lerman), un ragazzo di New York che assiste impotente alla morte della nonna, una sopravvissuta dell’Olocausto.
Alla ricerca di risposte che possano dare un senso a ciò che un senso sembra non averne, Jonah incontra Meyer Offerman (Pacino), compagno di prigionia di sua nonna, che lo mette davanti ad una realtà di cui Jonah non poteva nemmeno immaginare l’esistenza: esistono delle persone che hanno scelto come obiettivo della vita quello di dare la caccia ai nazisti che vivono negli Stati Uniti, che sono sfuggiti all’arresto e che si sono nascosti in mezzo alla gente comune.
Intanto, mentre Jonah è alle prese con l’elaborazione del lutto per la sua perdita e, insieme, l’atto di ricostruire l’identità della nonna, ammantata com’è di segreti, nell’ombra si sta muovendo un gruppo di persone fortemente convinti degli ideali nazisti, reduci a loro volta dall’esperienza dei campi, che stanno cercando di riportare in auge il loro credo, formando il cosiddetto Quarto Reich.
Vivere una bella vita è la migliore vendetta
Se si guarda l’inizio di Hunters con la consapevolezza della trama, l’incipit del racconto lascia immediatamente spaesato lo spettatore. I colori pastello, il cielo terso, il classico picnic estivo della borghesia statunitense: tutti gli elementi che sono stati costruiti per iniziare il racconto sembrano quelli legati all’immaginario della commedia, di un certo tipo di cinema fatto per sorridere insieme e descrivere la tanto decantata american way of life coi toni leggeri di una commedia. Ma una nota stridente appare più o meno immediatamente, indirizzando chi guarda a seguire la giusta direzione.
Dai primi due episodi visti in anteprima, appare evidente che la caratteristica principale diHunters, e anche la sua dote più spiccata, è proprio la capacità di fare un mélange equilibrato ma mai banale di due modi di intendere l’intrattenimento: quello fatto puramente per divertire e quello che invece vuole riflettere su temi attuali guardando alle proprie spalle, cercando nel passato le falle di un sistema che oggi appare corrotto quanto lo era cinquanta anni fa, nel pieno degli anni ’70 in cui Hunters è ambientato.
La serie, infatti, gioca molto con la leggerezza (ma, attenzione, mai scivolando nella superficialità), inserendo battute dove lo spettatore non se lo aspetta e cogliendolo piacevolmente di sorpresa.
Anche l’impianto scenico è quello volto a sottolineare il carattere più goliardico: le battute ambigue a sfondo sessuale, i colori accesi che pervadono la vita dei nazisti, il contesto in cui il protagonista Jonah si muove. Tutto sembra venir fuori da una delle migliori commedie degli anni ’70. Poi, con lo stesso colpo inatteso con cui arrivano le battute, il tono si fa più cupo e gli incubi di una delle pagine più nere della storia contemporanea prende il sopravvento. I racconti del Ghetto, le immagini brucianti dei campi, dove l’umanità viene irrisa in favore di un’ideologia malata, resa ancora più orribile dall’indifferenza con cui è stata fatta salire al potere.
E tra questi due poli — la risata e il pianto, la leggerezza e la greve consapevolezza — si muove un’intenzione narrativa volta a non voler usare i mezzi termini del politicamente corretto.
Durante il primo incontro con Meyer, il protagonista si sente dire di lasciar perdere la sua voglia di scoprire cosa sia successo alla nonna e lo invita a ricordare uno dei passaggi della Talmud, uno dei testi sacri della religione ebraica: vivere una bella vita è la migliore vendetta. Una frase che potrebbe essere accostata a quella del porgere l’altra guancia, di perdonare e andare avanti. Ma questo ideale, che viene presentato come il sentiero roseo di chi è sceso a patti coi propri fantasmi, si presenta per quello che è, all’interno del racconto: il vuoto luogo comune di un vecchio che vuol tenere al sicuro il nipote di un’amica.
Ben presto, però, lo spettatore viene messo a parte di quello che è il vero pensiero di Meyer, ossia che la vendetta è, di fatto, la migliore vendetta. Ed ecco allora il politicamente scorretto dei Cacciatori, che non sono eroi senza macchia che vogliono difendere il bene. Sono invece persone piene di crepe che vogliono sconfiggere il male, giocando al suo stesso gioco. Utilizzando gli stessi strumenti: i numeri, il gas, la spietata crudeltà. E se la commistione di generi è il perfetto biglietto da visita di questa serie, la sua mancanza di facile moralità ne è il cuore pulsante. Quello più vero.
Hunters: a caccia di mostri
Tra le accuse che sono state mosse a Hunters, prima ancora di avere l’occasione di visionarlo, c’era il problema dell’umanizzazione. Mostrare i nazisti negli Stati Uniti, coi loro nuovi amici e le loro famiglie, avrebbe corso il rischio di umanizzarli? Di renderli simili a noi?
Hunters non fa questo, o almeno non lo fa nel modo in cui i detrattori a priori della serie sembravano volerlo insinuare. I “capi” di questi nazisti del nuovo decennio vengono dipinti con il cinismo e la crudeltà di personaggi che sono abituati a uccidere e che non hanno molti problemi a farlo. Uomini corrotti e mercenari che sembrano non avere limiti. Nel passato, i nazisti del campo vengono mostrati più o meno allo stesso modo: spietati, perversi, affetti da una dipendenza dal dolore altrui da renderli mostruosi.
Ma in questi estremi trova spazio anche qualcos’altro: la mano di un soldato delle SS che trema quando si rende conto di dover uccidere, così come le mani macchiate di sangue di un prigioniero dei campi quando si trova a scegliere tra la sua vita e quello di un amico. Hunters dipinge così le tonalità più cupe di un’umanità che non è assolutamente priva di difetti, dove gli eroi stanno bene solo all’interno dei fumetti di cui Jonah è appassionato e che di certo non trovano spazio nel mondo reale.
Ma a ben guardare proprio la scelta di mostrare anche i nazisti nella loro dimensione umana — il mostro del campo che gioca tenero con una bambina —, la dottoressa che mangia dolci per superare il senso di solitudine che la attanaglia serve in qualche modo a spingere lo spettatore a riflettere, a smettere di dar per scontato che un simile orrore non potrebbe ricapitare più. Perché coloro che lo hanno perpetrato non erano i mostri che si nascondevano sotto i nostri letti quando eravamo bambini: ma erano esseri umani, proprio come noi.
Rendere i nazisti semplicemente dei mostri, delle macchiette piatte e prive di approfondimenti, vorrebbe dire cercare di dar loro una giustificazione, una scappatoia morale, quasi un proscioglimento per incapacità di intendere e di volere, perché se sono i mostri a fare il male, che cosa possiamo farci noi? Invece Hunters decide di fare proprio questo: non mette in scena il mostro, ma la mostruosità dell’umanità, che è una sottigliezza da non sottovalutare e che, soprattutto, trasporta lo spettatore ancora più dentro la storia, aumentando a dismisura il livello di partecipazione.
Hunters: Un piccolo gioiello
Grazie a tutti questi elementi e alla consapevolezza puntigliosa con cui è stata scritta la sceneggiatura — che trova anche il tempo di riflettere sulla questione femminile, contrapponendo due modi diversi di rapportarsi al ruolo di potere di una donna — Hunters è un piccolo gioiello, che si fa forte di una fotografia mai scontata e di un cast che riesce a riempire lo sguardo, pur senza aver bisogno di grandi monologhi o di scene madri.
Nel mettere in scena l’orrore della quotidianità, Hunters si costruisce attraverso una struttura a puzzle, dove l’attenzione e la curiosità dello spettatore vengono sempre tenuti alti, in una sorta di sfida che si accompagna alla perfezione alle scene d’azioni e di violenza che accompagnano questa storia di non eroi che vanno a caccia di mostri umani.
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