La lenta fretta di Tame Impala è quella di un disco magico e profondo
The Slow Rush è il primo album di Tame Impala, alias Kevin Parker, da cinque anni a questa parte. Le aspettative erano alte, specie da parte dei fan che seguivano il musicista dai tempi di Innerspeaker (2010), e temevano di perdere il loro eroe, consegnatosi definitivamente alle grinfie del pop, genere con il quale flirta già da un po’. Bene, non è avvenuto. Vero, The Slow Rush manca di chitarre distorte, atmosfere rock e musicalità da “sostanze ricreative”. Quel che però non manca, se si vuole guardare oltre il mito del rock “perduto”, sono le capacità compositive, d’arrangiamento e d’esecuzione di Parker, che come al solito ha registrato l’intero album da solo, nel suo studio in Australia.
Musicalmente, il disco si colloca da qualche parte tra gli anni ’70 e ’80, con forti accenti disco/funk, ritmi tranquillamente dance, e momenti più vicini alla house. Vi si coglie un po’ di tutto, da Diana Ross ai Supertramp, dal synthpop alla disco music. Parker costruisce le sue melodie con la perizia di un architetto musicale esperto, componendo gli strati sonori senza lasciare una nota fuori posto, e ottenendo sempre precisamente l’effetto che si propone di ottenere. Concettualmente, come già si poteva intuire dai primi singoli e dalla splendida cover, l’album affronta il tema del trascorrere del tempo. Tema che si incasella in una prosecuzione logica dell’analisi che Parker compie della condizione dell’individuo moderno: introspezione (Innerspeaker), solitudine (Lonerism) e cambiamento (Currents), precedono la “lenta fretta” qui trattata.
Un ossimoro che ha ovviamente a che fare, in differenti maniere, con il mondo in cui viviamo. Da una parte il global warming (che ha toccato di persona lo stesso Parker), la desertificazione (rappresentata in copertina) e la dissolvenza del mondo nell’oblio. Dall’altra, la fretta di fare qualcosa (Instant Destiny), subito, finché siamo in tempo; ma è necessario prenderci il tempo per farla bene (One More Year, Breathe Deeper) e focalizzarci sugli obiettivi che ci proponiamo (On Track; Patience, singolo non incluso nell’album). L’individuo (Parker) rimane incastrato tra queste due tendenze, una distruttiva e l’altra iper-costruttiva, cercando al contempo di superare la conseguente insicurezza e incapacità decisionale. Si continua a vivere nel passato (Lost in Yesterday), o si sceglie di affrontare il futuro (It Might Be Time).
In ogni caso, si tratta ancora una volta di un percorso musicale e filosofico complesso, completo, che ricerca il perfetto equilibrio tra voglia di perfezione e continua impossibilità di raggiungerla. L’album concede molto all’ascoltatore casuale, ma non abbandona il musicofilo incallito, né il fan di vecchia data (le atmosfere psichedeliche, anche se senza chitarre, ci sono e sono pure ben distribuite). Kevin Parker si evolve da aspirante chitarrista appassionato di Led Zeppelin, che suona solo per divertimento, in produttore/compositore ambizioso e conscio delle proprie potenzialità. Il musicista australiano mira con precisione a ciò che vuole esprimere, scartando gli elementi che non gli servono e non fermandosi davanti a niente sul cammino. The Slow Rush richiede molteplici ascolti, ma una volta approfondito a dovere non può non essere considerato come la perfetta prosecuzione della saga (musicale e non) di Tame Impala.