Parasite, analisi di un trionfo: il cinema cambia Hollywood ma non il mondo

Parasite ha trionfato nella notte degli Oscar. Il film di Bong Joon-ho ha convinto Hollywood a premiare un aspro atto di accusa contro la società...ma il mondo non cambierà

Parasite, una scena del film
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Parasite segna un nuovo precedente negli Academy Awards

Vincendo come nessuno aveva mai vinto, Bong Joon-ho porta a casa il maggior numero di statuette ottenuto da una singola persona. Il suo Parasite gli è valso alcuni dei premi maggiori della serata, ed è inutile enumerare un poker che è già leggenda. Torna però immediatamente alla memoria la notte degli Oscar di un anno fa. Alfonso Cuarón  era tra i favoriti già dal Festival di Venezia, nel quale ha trionfato con il Leone d’Oro. Miglior regia, fotografia e film straniero: un tris di premi di assoluto prestigio.

Roma fu un caso filmico per un motivo ben più sottile: segnò, prima di Parasite, un primato altrettanto importante. Fu infatti il primo film non in lingua inglese a vincere il premio per la miglior regia. E nonostante avesse tutte le carte in regola per vincere anche la statuetta più ambita, alla fine Hollywood ha preferito premiare se stessa, assegnando il riconoscimento per il miglior film a Green Book. Parasite prolunga questa conquista e si spinge oltre, sbaragliando la concorrenza impietosa del favoritissimo 1917 e degli altri grandi film in gara, da Scorsese a Tarantino. Ed è proprio a questi due registri che Bong Joon-ho ha rivolto il suo tributo.

Con Parasite Bong Joon-ho entra nel gotha dei registi di Hollywood

Profondamente consapevole delle radici del suo cinema, non ha potuto non invocare la standing ovation per il grande maestro del Novecento Martin Scorsese, esempio ed ispirazione. Contemporaneamente, si è rivolto ad un titano della Hollywood contemporanea, ringraziandolo per aver sempre amato i suoi film prima della consacrazione di quest’anno: Quentin Tarantino ha da sempre indicato in Memorie di un assassino uno dei suoi film preferiti.

Parasite, Bong Joon-ho viene premiato agli Oscar

Cinema orientale ma che attinge dai classici del cinema americano, e ad un tempo è capace di affascinare ed ispirare quegli stessi autori. D’altronde quella di Bong Joon-ho è una strada a metà tra la Corea e l’America da diverso tempo. Già Snowpiercer si nutriva di un respiro profondamente internazionale, e Okja è stata la conferma di un ispirato cosmopolitismo, avendo alle spalle Netflix ed annoverando nel cast Jake Gyllenhaal e Tylda Swynton.

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Parasite è quindi il compimento di un percorso tracciato da tempo, e che ancora sembra stare a metà tra due dei film più importanti della scorsa stagione, capifila dei due mondi cinematografici di appartenenza. Non condivide con Roma solo il primato agli Oscar, ma anche alcuni intenti narrativi, nel guardare agli ultimi di una società fortemente castale, seppur declinati chiaramente in forme e contenuti totalmente differenti. Ancora, la famiglia è l’ambiente privilegiato di questa riflessione, e non si può non pensare alla Palma d’Oro Shoplifters di Kore-eda.

Tra due film che soffrono a loro modo di elitarismo, Parasite sceglie l’ibridazione

Roma affonda le sue radici stilistiche nella storia del cinema europeo, chiudendosi nella bellezza chiaroscurale del neorealismo e della nouvelle vague. Dall’altro lato Kore-eda non scende a compromessi con la sua storia artistica e con gli stilemi a cui ci ha abituato. Invece, coerentemente con la cinematografia sudcoreana contemporanea, che proprio in lui e Park Chan-wook vede i massimi esponenti di un cinema sempre molto apprezzato in Europa e America, in Parasite Bong Joon-ho ha confermato il suo interesse a fondere gli universi filmici dell’Oriente e dell’Occidente, senza tradire le proprie origini ma con una confezione capace di essere autoriale ed hollywoodiana allo stesso tempo.

Attraverso una commistione di linguaggi filmici fortemente postmoderna, Bong Joon-ho porta in scena un film che non fa sentire alieno lo spettatore occidentale. Gli va incontro attraverso una narrazione capace di stupirlo pur essendo tenuta sotto maniacale controllo, con una colonna sonora estremamente affine ai nostri linguaggi musicali, con un lavoro visivo sugli interni da manuale di fotografia e con la sapienza registica della storia del nostro cinema.

Si pensi ad esempio all’utilizzo mirabile del montaggio parallelo nella sequenza in cui i Ki-atek, rifuggiatisi nel loro seminterrato, vengono esplicitamente paragonati al parassita che vive negli antri della villa dei Park. Espedienti tipici di certe cinematografie istituzionali che donano un preciso taglio estetico ad un film che, nella grande maestria tecnica, sa intrattenere, divertire, sorprendere.

Parasite, una scena del film

Come Hollywood cambia: il riconoscimento del cinema sudcoreano

Parasite rinuncia alla componente più esotica di un certo cinema orientale, sia quello più contemplativo che quello più sperimentale, trovando un perfetto equilibrio formale. Ciò che non perde è la profonda carica di accusa che Bong Joon-ho lancia alla Corea del Sud, alle sue criticità sociali ed economiche. Ed è sicuramente uno dei motivi principali del suo enorme apprezzamento.

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Il film racconta con grande energia la lotta di classe, ma con l’amara consapevolezza di una sociologia dell’immutabile. Scegliendo il punto di vista dei poveri dona loro una voce, ma anche una rivalsa illusoria. Allo stesso tempo offre ai ricchi uno spunto di riflessione, ridicolizzandoli ma senza rovesciare realmente la gerarchia che li vuole al vertice. Se Roma era l’onirica elegia degli ultimi fatta di ricordi e malinconia, Parasite è invece saldamente ancorato alla nostra realtà storica: le vicende potrebbero svolgersi praticamente in qualsiasi parte del pianeta.

Ed ecco quindi l’ennesimo twist di un’opera capace davvero di offrirsi al pubblico di tutto il mondo: in fondo, Parasite non inscena altro che le conseguenze del capitalismo sfrenato. E con questo gesto storico, l’Academy ha estratto il valore simbolico del film, slegandolo dalla realtà in cui è fisicamente nato, elevandolo a caricatura di qualsiasi società. La borghesissima Hollywood ha quindi premiato un film sugli ultimi proveniente dall’altra parte del mondo: la stessa borghesia tipizzata dall’inetta e goffa famiglia dei Park.

Ora che però Hollywood ha inquadrato il film nei suoi schemi, svilendolo forse della sua carica dissacrante originaria, si fa ancora più debole l’atto di accusa. E se certamente Bong Joon-ho ha conquistato l’America, bisognerà ora vedere quanto l’America conquisterà lui, e se la Corea rimarrà il sogno lontano di un cinema d’impegno sociale assorbito dallo sfarzo hollywoodiano. Il mondo, intanto, resta alla finestra in attesa che il cambiamento travalichi lo schermo.

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