Testo: Rancore. Musica: Dardust. Basterebbe dire questo per descrivere perché Eden è la migliore canzone in concorso a Sanremo 2020. Ma, per fortuna, c’è molto di più. Con serietà e professionalità assoluta Rancore mette in scena una complessa allegoria a sfondo religioso, partendo da quel famoso peccato originale della mela che nell’eden cristiano condannò l’umanità. Eppure, i versi di Rancore comunicano, ancora, una speranza di redenzione e forse di palingenesi per un genere umano che, per lui, non pare completamente perduto, nonostante… tutto.
Il rapper sciorina rime fatte di citazioni mitologiche di altissimo livello, intrecciandole in un discorso coerente che arriva al destinatario con tutta la forza intesa. Alla fine della canzone, il cantante “muore” sul palco, nell’agognare un ritorno a quel mondo dove “tutto era unito”, e che è in fondo forse l’aspirazione ultima dell’arte più filosofica. E, a proposito di arte, c’è da sperare che finalmente, dopo una canzone come questa, anche il pubblico Sanremese inizi a prendere la musica rap con la serietà che si merita.
Junior Cally – No grazie [7/10]
Possiamo tirare un sospiro di sollievo. Junior Cally si presenta senza maschera, con un pezzo che no, non inneggia alla violenza contro le donne, ma in compenso lancia proclami (anti-)politici e alimenta il mito del rapper “scomodo”, che non si adatta alla società e si è costruito da sé. Tutto già sentito. Il pezzo è di per sé valido, con una base rock convincente e un ritmo energico. Junior Cally è un personaggio, sì, ma qui è sincero quanto basta.
Una narrativa nostalgica con un soggetto preciso, alquanto evidente. Giordana Angi, com’è regolare per il cantante medio italiano, ignora la metrica ma esibisce una voce particolare. La canzone è sentita ed emozionante, riesce a non annoiare ma è troppo breve, perché finisce prima di avere avuto il tempo di ascoltarla con attenzione.
Michele Zarrillo – Nell’estasi o nel fango [7/10]
Michele Zarrillo è forse l’unico cantante “del passato” in gara a proporre un pezzo realmente, sinceramente valido, che non si appiglia al desiderio di appagare i gusti dello spettatore medio del Festival, ma si esprime viceversa in un cantautorato sempre competente e a suo modo “giovane”. La sua presenza, al contrario di molti altri “big” di venti anni fa, non si rimpiange affatto.
Gabriella Martinelli e Lula – Il gigante d’acciaio [9/10]
Una stupenda sorpresa per un coppia che smentisce da subito il cliché della canzone d’amore, portando invece un pop/rock altamente scenografico e sinceramente grintoso. Lula passa dalla batteria al microfono, trasformando la canzone in un rap convinto e cambiandone la struttura a metà. Assolutamente convincente, ma purtroppo non abbastanza per il pubblico.
Un trap/rock che occhieggia molto alle sonorità dell’emo rap americano. Il tradizionale braggadocio del genere passa dall’auto-celebrazione alla riflessione intimista, e l’auto-tune, anziché sporcare l’esibizione, ne impreziosisce l’effetto. Qualcosa che forse manca nel mainstream rap italiano, uno stile che non spiacerebbe ai fan (se ce ne sono anche qui) di Lil Peep.
Marco Sentieri – Billy Blu [9/10]
Un’antologia su bullismo, crescita e redenzione accompagna un pezzo di rap coscienzioso e maturo, profondo e catartico. Lo stile di Marco Sentieri si impone con sicurezza e si esprime in un numero subito e giustamente apprezzato, che mostra il lato più impegnativo e diretto del genere. Un momento incisivo da riascoltare subito.
Matteo Faustini – Nel bene e nel male [5/10]
Una canzone imprecisa e insicura, che vorrebbe essere emozionante ma riesce solo a rispettare un canone di bravura convenzionale. Il cantante sa fare il suo mestiere, ma la composizione che porta è fin troppo debole e poco convincente. Anche l’esecuzione non aggiunge molto, e dà la netta impressione di una buona occasione sprecata.