A Sanremo dietro l’occhiale da sera c’è una raffinata conoscitrice delle radici della musica italiana.
Non siamo nelle condizioni di poter definire “cringe” Sanremo. Primo, perché è appena iniziato, e vogliamo dargli una possibilità. Secondo, perché sarebbe come dire a Michael Bay che nei suoi film esplodono troppi veicoli: completamente inutile, e non costruttivo. La nostra idea sulla prima serata già ce la siamo fatta.
Ma se non sarà Sanremo a tirarci fuori dall’oscuro abisso in cui siamo sprofondati, possiamo ancora contare su L’Altro Festival, un aftershow condotto su RaiPlay da Nicola Savino, e che rispetto al Festival “originale” ha lo stesso lato positivo che hanno gli afterparty dei concerti: tutte le più basilari regole saltano. Certo, essendo gli standard di rigore e pudore di Sanremo abbastanza alti, non possiamo aspettarci un aftershow ‘sesso droga e Beppe Vessicchio’ , ma un notevole abbassamento del livello di decenza potrebbe riservare perle che solo in Italia sappiamo tirare fuori.
Come facciamo ad esserne così sicuri? Beh, è già successo:
Ieri sera, nella prima puntata de L’Altro Festival, la guida spirituale del decennio Myss Keta ha messo in scena un curioso tributo alla musica italiana anni ’50 e ’60 sulla base della sua (s)pregiudicata hit UNA DONNA CHE CONTA. Un omaggio di sottile citazionismo, che ci apprestiamo ad analizzare di seguito, per svelarne tutti i messaggi nascosti.
Il brano comincia con l’eco di una sirena della polizia. Un chiaro e primordiale segno di trasgressione, che Myss Keta vuole far emergere chiaramente e ribadire con il suo immancabile occhiale da sera e la mascherina modello epidemia. “Potete cantare, fare quello che volete, amori miei” esordisce la cantante, come se tenesse le redini dell’intero programma, o dell’intera storia di Sanremo. Come se fosse lei stessa Sanremo, che dà il beneplacito ai suoi pargoli presenti, passati e futuri: cantate, fate quello che volete, amori miei; ispirata dalla Musa del più grande festival musicale italiano, la Myss si fa aedo e megafono delle parole di Sanremo stesso. Non è casuale la simbologia dell’occhiale da sole, utilizzati nella nostra storia per occultare due occhi che, proprio come gli aedi, non vedono la realtà fisica ma quella poetica e spirituale delle cose.
“Insieme a Domenico / dipinto di blu / ero la regina / della tv”
Una citazione di primissimo ordine: Nel blu dipinto di blu, anche conosciuta come Volare, fu il brano con cui Domenico Modugno vinse il Festival di Sanremo del 1958. Composta da Modugno insieme a Franco Migliacci, il brano divenne popolarissimo addirittura negli Stati Uniti senza essere stato inciso in inglese e portò alla fama mondiale il trentenne Modugno, trasformando difatti lui e tutti coloro che interpretavano il suo capolavoro in re e regine indiscussi del mondo dello spettacolo.
“Prendi questa mano / ho detto a Iva / lei la prendeva / e si divertiva”
Un altro pezzo di storia: Zingara, la canzone che trionfò a Sanremo 1969, interpretata da Iva Zanicchi e dalla dandy icon Bobby Solo. Ispirata ai compositori Riccardi e Albertelli da un romanzo di David Herbert Lawrence, narra la drammatica storia di un amore affidato alla lettura della mano ad opera della sopracitata zingara; nella ricostruzione poetica della chiamata vocazionale, è Iva a prendere la mano che Myss Keta/personificazione di Sanremo le intima di afferrare: non per leggerla ma per farsi trascinare nel turbine di emozioni e frenesia che è il Festival, luogo fisico e metafisico di dolore per i derelitti, ma di supremo divertimento per i prescelti (la Zanicchi ha vinto tre volte: 1967, 1969, 1974).
“Mia cara Nilla / grazie dei fiori / prendili pure / ma aspettami fuori, magari”
Il fascino candido e pudico di una Nilla Pizzi che nel 1951 vinse la prima edizione di Sanremo con Grazie dei fiori, la trasposizione musicale dell’amore come una rosa: punge, ma è travolgente. In questo paradiso di innocenza l’imponente presenza dell’aedo Myss Keta scarica con sufficienza la giovinetta venuta a portarle proprio i fiori per cui aveva ringraziato: simbolo di un’intera generazione di cantanti educati e puliti che, venuti a rendere omaggio al festival che più di tutti li aveva cresciuti e formati, si trovano a dover affrontare il gusto sgarbato e provocatore che avanzava inarrestabile e li aspetta, fuori dal camerino, per convertirli. E che culmina in Achille Lauro che si stanca dei vestiti. “Grazie dei fior, e addio, per sempre addio, senza rancor”.
“C’era Gigliola / non aveva l’età / ho aspettato i diciotto / e DUDU-DADADA
Il potere dionisiaco dell’eros sublimato dall’età ancora proibita: Gigliola Cinquetti ha sedici anni quando vince Sanremo nel 1964, con il brano Non ho l’età. L’attesa del piacere che non rischia di diventare essa stessa il piacere: è Myss Keta/Sanremo il vero amante di Gigliola, che finge di non avere l’età, ma è capacissima di domare tutta la passione di un partner così ardito. Superata la piena maturità, però, l’amante si scatena in un rapporto totale con l’eroica Gigliola; e nella bellissima storia tra la ragazzina e la teoria metafisica che rappresenta Sanremo non c’è miglior nome da darsi che “trottolino amoroso dudu-dadada”, chiaro riferimento al brano Vattene amore di Amedeo Minghi e Mietta portato a Sanremo 1990.
“Mike, Mike, Mike / quanta allegria / io sostenevo gli sponsor / mica come l’Elia”
La parafrasi di questa quartina si fa più difficile: Mike Bongiorno, undici volte conduttore di Sanremo, effigie di una televisione italiana ormai scomparsa. Con Sanremo, effigie del pubblico di quella televisione marchiata a fuoco da Mike, sempre dalla sua parte, come testimonia Keta ricordando un episodio in cui Bongiorno si adirò con una soubrette, tale Antonella D’Elia, colpevole di aver sostenuto in diretta TV la posizione di una donna che si era rifiutata di accettare la pelliccia vinta in un gioco a premi telefonico, in quanto animalista convinta. La furia di Mike si abbatté implacabile sulla d’Elia, che aveva pubblicamente denigrato l’azienda di pellicce, sponsor del programma. Anche nel suo lato più buio, consumato dall’iper-capitalismo, Mike Bongiorno aveva Sanremo al suo fianco, sotto il segno di un ottimismo scientifico che Mike, nella sua totale poesia, condensava in un semplice “ALLEGRIA!”
“Ah, se potesse parlare / la mia vecchia Panda / farebbe un solo nome: / Lucio (,) Dalla”
L’iconoclastia dell’elemento sessuale torna nel profondo contrasto e accostamento tra Lucio Dalla, ambasciatore dell’anti-convenzionalità, e un Sanremo che andava in direzione totalmente opposta: creato per placare le masse affamate, oltre che di panem, di circenses composti e pacati. Ma quella vecchia Panda sfuma ancora di più l’atmosfera confusionaria della scena. Rimanda al brano What A Beautiful Day proprio di Dalla, in cui la voce narrante parla di due preti su una Panda. Quel 1999 che è anche il titolo del primo album del bolognese (pubblicato nel 1966) e dal quale Dalla estrasse il primo brano con cui partecipò a Sanremo. Sacerdoti del caos poetico, Myss Keta/Sanremo e Dalla in quella Panda si sono abbandonati al culto del diverso e dell’assurdo. L’assurdo che si nobilita in quella virgola messa fra parentesi, che speriamo esista e sia la miglior esortazione possibile.
“Sì, non sono una santa / ma erano altri tempi, cinquanta sessanta / quando la guerra era fredda / ma l’economia calda / e ora sono settanta / per un Sanremo che conta / un Sanremo che 1,2, / un Sanremo che conta / un Sanremo che 3,4, / un Sanremo che abbonda”
Nella strofa finale, Myss Keta all’apice del climax d’ispirazione nella fusione di logos e pathos compone un mosaico emozionante ed evocativo nel contrasto tra conflitto immobile e fervore economico: sono le due facce della gloria di Sanremo negli anni del boom economico. Sanremo che contava, e conta ancora oggi, Sanremo che abbonda di arte drammatica e spettacolo come il più liberatorio dramma satiresco.
L’epopea di Myss Keta/Sanremo si chiude con un delirio di pubblico danzante impacciato e una certezza: L’Altro Festival è l’aftershow che aspettavamo.