10 grandi film completamente ignorati dagli Oscar 2020

I grandi titoli ingiustamente esclusi dalle nomination degli Oscar 2020

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Motherless Brooklyn, Edward Norton, 2019: miglior canzone originale (Daily Battles, T.Yorke)

Motherless Brooklyn di Edward Norton aprirà la Festa del Cinema di Roma

L’Academy non deve nutrire profonda stima e simpatia per il frontman dei Radiohead. La scorsa edizione la sua partitura per Suspiria sarebbe potuta essere la sorpresa nella categoria delle colonne sonore. Il suo è stato un esordio sorprendente nella musica da film, un complemento perfetto e necessario all’opera di Guadagnino, ma anche un disco che esiste al di là delle immagini e gode di perfetta autonomia musicale. Quest’anno Thom Yorke si conferma grande escluso nelle categorie musicali. La sua Daily Battles avrebbe meritato quantomeno la nomination per la migliore canzone originale, se non di vincere la statuetta.

Non solo perché la canzone è oggettivamente un gioiello di testo e musica, impreziosita quest’ultima dagli interventi di Flea alla tromba. L’atmosfera contemplativa e indefinita del brano, perfettamente coerente con lo stile registico adottato da Edward Norton, è capace di evocare brumosi paesaggi onirici e campi lunghi di questa New York orfana della legge. La vena jazz che attraversa questa sofferta ballad è perfetta per sostenere la narrazione rapsodica ed improvvisata di Motherless Brooklyn, tanto che Norton ha deciso di dotarla di una seconda versione, che sottolinea proprio questa sfumatura.

Ha assoldato Wynton Marsalis per riscriverla come un glorioso solo di tromba di Miles Davis, affidando a questo strumento tutta la vocalità di Thom Yorke. E di fronte a tanta bellezza l’Academy ha confermato il suo gusto per il pop, demandando la presenza di Yorke agli Awards a quando avrà scritto la sua prima sinfonia, o il prossimo successo di Taylor Swift.

A cura di Leonardo Di Nino

L’Ufficiale e la Spia, Roman Polanski, 2019: miglior film, miglior regia, miglior fotografia, miglior sceneggiatura non originale

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Roman Polanski è diventato, suo malgrado, uno dei bersagli del movimento #MeToo. Complice sicuramente la partecipazione del suo ultimo capolavoro al Festival di Venezia, la serenità sembra lontana per un uomo la cui vita è costellata sì di errori, ma anche di atroci sofferenze. Così con J’accuse Polanski non ha depositato un atto di accusa ai suoi detrattori, ma ha firmato un grande dramma storico intriso di riferimenti alla sua storia personale. Il personaggio di Alfred Dreyfus porta in scena l’ebreo vittima di una giustizia sommaria e dei pregiudizi, evitando però di far scadere il film in un indigesto melologo. È piuttosto la ricerca della verità la reale protagonista di un film dalla struttura e dall’ispirazione fortemente classicista.

Basterebbe citare la panoramica iniziale per rendersi conto di essere di fronte ad un’opera statuaria, monumentale nelle scene più corali ed estremamente intimista nei momenti più struggenti. Nobile semplicità e quiete grandezza guidano l’occhio di Polanski e del suo favorito PaweÅ‚ Edelman nella costruzione di un comparto visivo che segna forse un nuovo standard all’interno della filmografia del grande regista polacco. Guarda al proprio cinema, ricreando quasi, in certi interni, la stessa luce fuliginosa della trilogia dell’appartamento. Contemporaneamente, si rivolge ai classici del dramma storico, eleggendo Barry Lyndon a riferimento assoluto: Polanski ha così creato un suo personalissimo stile visivo che trova naturale completamento nel riferimento artistico della plasticità compositiva della grande pittura proto-romantica.

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Tutto ciò ibridato con il ritmo e la caratterizzazione di un film d’inchiesta, a rafforzarne la struttura narrativa e a renderlo un unicum cinematografico davvero irripetibile. Un’opera di grande pregio artistico che non scade mai nel manierismo. Un film che avrebbe meritato più di qualche nomination a questi Oscar 2020 se fosse semplice scindere l’uomo dall’artista.

A cura di Leonardo Di Nino

The Laundromat, Steven Soderbergh, 2019: miglior sceneggiatura non originale, miglior attrice non protagonista

Panama Papers

Diametralmente opposto all’asciuttezza rigorosa di The Report, Scott Z. Burns ha scritto per l’amico Steven Soderbergh la brillante sceneggiatura che ricostruisce lo scandalo dei Panama Papers. Sospendendo la realtà-documentario, The Laundromat diventa grande cinema, donando connotati completamente nuovi al cinema d’inchiesta. Creando un ritmo narrativo unico, The Laundromat giustappone unità narrative autonome, che contribuiscono a creare un affresco quasi altmaniano. Un piccolo miracolo di scrittura, dove tante storie, sottotrame, generi filmici vengono tenuti insieme dalla potenza della finzione filmica.

Il montaggio diventa il sipario di una macchina teatrale, orchestrata dal duo d’eccezione Banderas-Oldman. La vera stella del film è però Meryl Streep, una delle icone femminili più amate e riconosciute della Hollywood contemporanea. Dalla sua tragedia personale porterà avanti la propria crociata per la verità, rendendosi protagonista del meta-cinematografico twist finale. Una performance ingiustamente ignorata dalla Academy, che ha glissato su questo film certamente meritevole di riconoscimenti.

A cura di Leonardo Di Nino

Un giorno di pioggia a New York, Woody Allen, 2019: miglior attore, miglior attrice, miglior film

Un giorno di pioggia a New York
Un giorno di pioggia a New York

Un film che sembra iniziare come Irrational Man in realtà prende una strada completamente diversa, segnando per Woody Allen un radicale ritorno alle origini newyorkesi proprio a quarant’anni da Manhattan. Il più europeo degli americani firma un affresco dissacrante della borghesia di New York, costruito attraverso le avventure urbane di Gatsby Welles e Ashleigh Enright, portati in scena rispettivamente da Timothée Chalamet ed Elle Fanning. I due giovani attori confermano le loro qualità attoriali emerse negli ultimi anni, portando in scena due ruoli diametralmente opposti, come la piovosa New York e la solare Arizona, ma entrambe grandi performance.

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Lui rapsodico rampollo della grande mela, che sboccia solo sotto un cielo piovoso, lei vitalistica studentessa che affascina sotto tutti i punti di vista. La recitazione di Elle Flanning è completa e strutturata; sicuramente verbosa, ma permette all’attrice di spiccare con la sua affascinante fisicità in più di un’occasione. Al contrario Chalamet confeziona un personaggio molto più alleniano, fatto di sarcasmo e contraddizioni.

Alla fine entrambi verranno assorbiti dai polimorfi vortici di New York, in cui Vittorio Storaro miscela, come un orefice, la luce e il grigio della pioggia, completando con il suo tocco da maestro un film solidissimo nell’impalcatura drammaturgica. Nomination mancate quindi per i due protagonisti e al miglior film, opera completa e articolata artisticamente, brillante nella scrittura. Su Woody Allen, però, come per Polanski, alita lo spettro della dannazione, ed evidentemente non tutti i membri dell’Academy viaggiano con la American Airlines.

A cura di Leonardo Di Nino

Il primo re, Matteo Rovere, 2019: miglior film straniero

Il primo re

Il Maestro Marco Bellocchio ha incantato Cannes, ma Il Traditore non ha convinto l’Academy. E se l’Italia avesse designato un altro film a rappresentarla agli Oscar 2020? Con i se e con i ma la storia non si fa, ma a noi piace sognare e provocare. Secondo la Scimmia Il primo re di Matteo Rovere avrebbe suscitato un interesse diverso e forse oggi gareggerebbe al fianco di Dolor y Gloria e Parasite. Questa ipotesi non vuole ovviamente confrontare due opere assolutamente differenti, assumendo che in ogni caso Il Traditore sia un grandissimo film. Tuttavia, scegliere l’epico esperimento di Mattero Rovere sarebbe stato un gesto di grande coraggio da parte del cinema italiano.

Spogliando il mito dalla sacralità, Rovere porta sullo schermo una rivisitazione cruda ed estremamente realistica della fondazione della città eterna. Costruendo il film comparto per comparto, Il primo re si propone capofila del Nuovo Cinema Italiano, scontrandosi con l’idea che la cinematografia nostrana ormai non abbia più niente da dire. Dalla fotografia alla regia, ogni aspetto è stato centellinato e modellato sui corpi dei protagonisti Alessandro Borghi e Alessio Lapice in una delle prove attoriali più interessanti delle loro carriere. Non ultima, la complessa operazione linguistica che ha permesso di scrivere il copione in protolatino. Una ricetta, se non d’avanguardia, sicuramente visionaria ed ardita, innegabilmente affascinante nella sua imperfezione e nella quale forse avremmo dovuto riporre più fiducia.

A cura di Leonardo Di Nino

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