Bojack Horseman, dopo sei lunghi anni, conclude la sua storia e pone fine a quella stasi che ha caratterizzato la vita di ogni personaggio.
Se il cambiamento è sempre stato un concetto importante e riproposto all’interno della serie, la sua manifestazione, invece, non ha mai avuto modo di ripercuotersi concretamente al suo interno. Vi è infatti una continua negazione della redenzione, che in questo ultimo atto, si trasforma in una condanna perversa ed assolutistica. Con la conclusione della serie viene quindi presa una posizione definitiva sull’argomento, che annulla ogni sorta di riscatto, suggerendo al tempo stesso una ciclicità degli eventi. Un uroboro nel quale i protagonisti sono avvinghiati e dove ogni mutamento è solo illusorio, momentaneo ed inconsistente. Nessuno dei volti iconici dell’opera infatti si evolve concretamente, tutti affrontano dei percorsi o intraprendono iniziative, ma niente di tutto questo li porta ad annullare i propri sbagli o a cancellare i propri difetti personali.
È la natura dell’opera stessa, attraverso le sue strutture visive e narrative, a ribellarsi ai desideri ed ai voleri di ognuno, rendendoli vittime degli eventi.
Bojack Horseman: nessuna redenzione
I personaggi vengono così incasellati in un percorso senza via d’uscita, a tratti predeterminato e fatalista, dove il passato gioca un ruolo fondamentale.
Il pessimismo cosmico, che fin dagli albori ha contraddistinto l’opera di Raphael Bob-Waksberg, ha la meglio, rendendo vana così ogni azione di rimodellazione. Si potrebbe affermare che il tema del doppio, in Bojack Horseman, esista. Quel contrasto tra tutto ciò che sono i personaggi e quello che vorrebbero essere, dà vita ad una mefistofelica negazione della catarsi. Uno scontro tra la percezione di sé e quella che gli altri ci riferiscono, che degenera in una dantesca odissea. Lo spettatore è chiamato a contemplare l’orrore esistenziale e la sua successiva espiazione, consapevole dell’impermeabilità di questo meccanismo. L’immobilità, o meglio l’assenza effettiva di un cambiamento, in questo ultimo atto, esplode con tutta la sua potenza. L’intero intreccio narrativo viene collegato al suo inizio, riavviando quindi la tragedia e ridefinendo il senso in essa.
L’ultima inquadratura, quella con cui Bojack Horseman si congeda dal suo pubblico, è la sintesi massima della natura e degli intenti della serie. Una condivisione del niente e del silenzio, sostenuta da una costruzione scenica che ci riconduce agli albori della serie, evidenziando così la stasi in essa.
Niente è effettivamente cambiato in sei anni. Nulla di quello che è successo ha alterato la VERA natura dei personaggi e tutto giace quindi inerme, in balia degli eventi.
Bojack Horseman è chiamato, in queste ultime otto puntate, ad affrontare non solo un personale ozymandias, ma anche un passato dal quale è sempre fuggito. Interessante anche sottolineare come, fin dalla primissima puntata, ci sia un monito nefasto all’interno della sigla d’apertura che qui trova la sua effettiva concretizzazione. Un ennesimo modo per sottolineare la fatalità e l’impotenza legata ai personaggi, costantemente braccati da un qualcosa di invisibile o terribilmente noto.
I fantasmi in quest’opera non sono altro che rimasugli, percezioni e sensazioni, che nel subconscio trovano luogo e occasione per potersi manifestare. L’irrazionale, da sempre caratteristica fondamentale in Bojack Horseman, si mescola nuovamente con la realtà ed in più di un episodio. Gli stilemi visivi e i proforma a cui la serie è legata vengono stravolti per mettere in scena una discrepanza, metafora di una nevrosi. Puntate che non solo esulano dalla classica codificazione del pubblico, ma che giocano con esso anche attraverso le proprie implementazioni estetiche e di linguaggio. Un finale, quello di questa ultima stagione, che non è altro che un amarcord della stessa creatrice, relegando l’effettiva chiusura all’episodio precedente.
Bojack Horseman anche in questa ultima parte, torna a confrontarsi con i traumi del suo passato e con lui anche tutti gli altri i personaggi. Ogni protagonista, come nelle altre stagioni, è in bilico tra ciò che è e quello che deve essere. Una posizione scomoda che se da una parte pone l’inadeguatezza e la mancata accettazione, dall’altra posiziona il conformismo e l’inevitabile annichilimento. Una società che intima al cambiamento, mentendo su di esso, e portando i protagonisti ad avere una nevrosi per questo. Non c’è pace per nessuno e non vi è alcuna via di fuga, ma solo l’accettazione di un qualcosa che non potrà mai essere cambiato: se stessi.